Al pari del Sarchiapone nell’indimenticabile scenetta di Walter Chiari, Carlo Campanini e Ornella Vanoni, la deflazione è un classico spauracchio per suscitare ad arte paure di sconquassi e incanalare acqua putrida verso mulini parolai che macinano argomenti senza costrutto.

Al pari del Sarchiapone, è sconosciuto il motivo plausibile per cui prezzi in discesa sarebbero una iattura. Qualcuno soffre perché la benzina non costa più due euro? O perché i cellulari valgono ormai come tre pacchetti di sigarette e due di caramelle? Misteri dei corto circuiti logico-cognitivi già illustrati, da un punto di vista speculare, nel post sulla “leggenda dell’inflazione stimolatoria“.

Al pari di Walter Chiari, che per impressionare i compagni di viaggio spacciava, con tono magniloquente e assertivo, il suo sapere in fatto di sarchiaponi (sia americani che asiatici, precisava), un’eccelsa scuola di pensiero sostiene che la gente in tempi di deflazione rimanda gli acquisti in attesa di affari più ghiotti e di conseguenza inevitabilmente il Pil collassa. Secondo le teorie sarchiaponiche si rinuncerebbe al ristorante perché fra 6 mesi la carbonara costerà l’1,35% in meno? Oppure non si mandano le camicie con patacche di unto e salsa in lavanderia in attesa del ritocco dei listini? E le signore si acconcerebbero a vestire tailleur sdruciti e collant smagliati? O magari si procrastina la visita dal medico tanto fra tre mesi la parcella sarà più lieve? 

Obnubilata dagli effetti stroboscopici dei millenarismi sarchiaponici, la logica si fa evanescente e lo scompartimento ferroviario assurge a cenacolo intellettuale. Eppure la deflazione l’abbiamo sperimentata per decenni in tanti settori, dai computer all’elettronica, alle telecomunicazioni. Non mi risulta che non si vendano smartphone o tablet, anzi per tali oggetti la gente fa la fila e si accampa la notte fuori dai negozi. Ne ho conoscenti in astinenza da cellulare perché il prossimo trimestre le tariffe saranno più convenienti o che reprimono il desiderio di vacanza pregustando il biglietto aereo lowest cost. E che dire degli abbonamenti internet? Si segnalano milioni di aspiranti utenti in paziente attesa di sconti? 

Per prevenire il riflesso condizionato di quanti, in perenne conflitto con l’ovvio, invocano i mitici dati, esiste una ricerca pubblicata nel 2004, in tempi non sospetti, da Andrew Atkeson e Patrick Kehoe intitolata “Deflation and depression: is there an empirical link?” (Deflazione e depressione: esiste un legame empirico?). I dati esaminati coprono 17 paesi lungo quasi due secoli dal 1820 fino al 2000.

Tolto il periodo 1929-34 (su cui dirò in seguito) in circa il 90% dei casi in cui venne registrata una caduta generalizzata del livello dei prezzi non vi fu alcuna recessione. Solo in 8 casi su 73 la deflazione fu associata a una caduta del Pil. Inoltre, in 8 depressioni sulle 29 esaminate non vi fu alcuna deflazione. Insomma il legame tra deflazione e decrescita del Pil è fievole. Se poi si eliminano dal campione gli episodi di depressione senza deflazione legati alle due guerre mondiali e all’immediato dopoguerra, il legame svanisce in un tenue singulto statistico.

Allora da dove si alimenta lo spauracchio? In buona sostanza da ciò che avvenne durante la Grande Depressione in America. È  il caso menzionato e studiato ad libitum, su cui l’interpretazione considerata quasi universalmente definitiva si deve alla Storia Monetaria degli Stati Uniti (1867-1960) di Milton Friedman e Anna Schwartz. Al dilettantismo della Fed si aggiunse il protezionismo cialtrone e la Grande Depressione si propagò in tutto il mondo (a questo link, pag. 41, si trova un’esposizione in italiano). Le serie storiche a disposizione su quel periodo coprono 16 paesi. Tutti registrarono una deflazione, ma solo in 8 vi fu una depressione.

Conclusione di Atkeson e Kehoe (pag. 6): l’esperienza storica insegna che “ci sono stati molti più periodi di deflazione con crescita ragionevole che con depressione e molti più periodi di depressione con inflazione che con deflazione”.

Gli autori fanno notare che dall’immediato dopoguerra si è verificato un solo caso di deflazione: in Giappone. Tuttavia crescita ed inflazione erano su un trend decrescente sin dagli anni ‘60 e ’70, rispettivamente. Quindi è difficile attribuire alla politica monetaria un fenomeno strutturale dipanatosi lungo 40 anni. Se poi si attua un confronto internazionale, negli anni ‘90 la crescita del Giappone fu in media dell’1,41%, non troppo diversa da quella dell’Italia 1,61% (dove l’inflazione era sostenuta), o della Francia 1,84% dove rimase moderata.

Ad ogni modo oggi in Eurolandia l’inflazione annuale è bassa, non negativa, con l’eccezione di Grecia e Cipro e in misura lieve in Spagna, Portogallo e Slovacchia (insieme a paesi fuori della moneta unica, come la Svizzera o la Svezia, di certo non in crisi). Pur adottando politiche monetarie diverse Eurolandia e Usa hanno tassi di inflazione simili (idem per i deflatori del Pil, nel 2013 rispettivamente 1,54% e 1,64%). La frenata dell’inflazione finora deve molto al fatto che i prezzi delle materie prime ristagnano, fenomeno per quale immagino nessuno si dolga. Le previsioni e le aspettative insite nei rendimenti dei titoli a reddito fisso indicano un’inflazione in risalita.

C’è però qualcuno a cui la bassa inflazione duole: i governi e in parte alcune banche. Senza inflazione i debiti non vengono erosi dall’illusione monetaria e il torchio del fiscal drag sui contribuenti si inceppa. Le tasse non aumentano più senza dover sfidare l’impopolarità di aliquote maggiorate e gli sprechi pubblici bisogna davvero ridurli, senza cortine fumogene nominali. Ecco da dove si amplifica la grancassa della deflazione sarchiaponica per continuare nei propri comodi, come faceva sul treno lo scaltro personaggio della scenetta a danno dei gonzi.

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