Johann Sebastian Punk è l’ambizioso progetto dell’artista siciliano poco più che ventenne, Massimiliano Raffa, uno che “cova piani catastrofici e che ha dichiarato guerra alla spontaneità” e che si definisce “un eroe decadente” intenzionato a riportare un’immagine dionisiaca di bellezza, laddove questa è stata sostituita da un grigio e sordido provincialismo. “Negli ultimi anni – dichiara l’artista – si è assistito alla morte dei generi musicali, cosa che anziché arricchire i contenuti musicali liberandoli dalle briglie delle etichette ha invece innescato delle dinamiche deleterie di totale impoverimento compositivo”. L’obiettivo di More Lovely and More Temperate, il suo disco d’esordio, composto da 11 brani in cui convivono glam-rock e shoegaze, bossa nova e rock, baroque pop e surf-punk, “è quello di fotografare questa totale confusione in cui viviamo ma con lo stesso spirito, lo stesso ardore e con la stessa attenzione alla composizione dell’età dell’oro della musica leggera. Quel periodo che va dagli anni 50 del XX secolo agli anni Zero del XXI”. E non è un atteggiamento nostalgico o passatista: tutt’altro! Condanna aspramente l’immobilismo creativo diffuso, richiamandosi all’ardimento sperimentatore di quella musica che ha segnato l’arte contemporanea. Johann Sebastian Punk vuole essere l’interprete di questo senso di smarrimento, e vuole farlo riaffermando il potere della composizione e dell’interpretazione, vessato da un’estetica dimessa che ha perso e alla quale adesso tocca cedere il passo a qualcosa che si faccia portatrice di bellezza. “È la storia a imporlo – prosegue Raffa – E io voglio essere parte di questa storia, voglio denunciarlo così, a costo di essere ridicolizzato dall’altrui indifferenza”.

Mi parli di te e del tuo background artistico?
Le mie prime registrazioni costituiscono un tentativo di costruzione di un ponte tra musique concréte, musica aleatoria e libera improvvisazione applicata al pop e alla ricerca melodica in una maniera del tutto inedita, in cui acustico, elettrico ed elettronico, analogico e digitale, potessero risultare parte di un unico febbricitante pastiche. Con l’avanzare del tempo mi sono gradualmente avvicinato alla forma canzone, pur senza perdere un approccio fortemente sperimentale alla scrittura e navigando in acque compositive spesso lontanissime tra loro. Penso a modo mio di essere stato un innovatore al quale non è stato dato riconoscimento in età adolescenziale. E poi è arrivato, a Bologna, Johann Sebastian Punk. Che per alcuni sono io, ma che in realtà può anche essere letto come il nome di un gruppo: senza i miei compagni di viaggio Simone Aiello (Pino Potenziometri), Lorenzo Boccedi (Albrecht Kaufmann) e Giandomenico Zeppa (Johnny Scotch) il progetto Johann Sebastian Punk non potrebbe esistere. Non riesco a pensare a un gruppo con altre persone.

E come mai questo “omaggio” al grande Bach?
Bach riteneva che l’opera fosse una forma d’arte minore, e si narra che fosse solito chiamare “canzonette” i contenuti musicali dell’opera. Eppure l’opera per musica era la forma d’arte simbolo del barocco, con la sua capacità di riunire all’interno di sé una serie diversissima di canoni espressivi e di arti come poesia, canto, recitazione, scenografia, architettura con un’inedita capacità di stimolare turbamento o meraviglia in pubblici sempre più vasti. Bach in questo fu molto punk, perché se l’opera continuò a prosperare perché la storia voleva andasse così, il barocco – con tutti i suoi codici – dovette piegarsi alla musica di Bach, dopo la quale il barocco non avrebbe avuto alcun senso. Ma Bach è anche il più complesso, almeno per l’epoca, si pensi alle composizioni del suo rivale Telemann, assai meno articolate di quelle di mio compare Giansebastiano, dei tardo-barocchi. È qui che Bach cambia cognome in Punk. Quando le canzonette diventano una condanna, e quando lo spirito annientatore del punk diviene l’unico modo perché l’arte riesca ad assumere una forma credibile. Distruggere per creare, sempre.

Ascoltando il tuo disco vengono alla mente molti riferimenti culturali, richiami a musiche, ad artisti e non solo per via delle cover: mi parli di questo tuo disco, in particolare di come l’hai concepito e cosa l’ha ispirato?
Secondo una balzana quanto intrigante teoria formulata nel corso degli anni da diversi studiosi della vita di William Shakespeare, la città d’origine di colui che è universalmente riconosciuto come il più grande drammaturgo d’ogni tempo non sarebbe, così come tutti noi abbiamo appreso dai libri di scuola, Stratford-upon-Avon, bensì Messina. Per quanto la storia abbia dell’assurdo, la quantità di coincidenze a suffragio dell’ipotesi che non si tratti di mera manipolazione storica è assai consistente. E a me, che sono messinese, la teoria piace e convince nella sua assurdità. Shakespeare è un buon punto di partenza, perché è di questi equivoci che deve nutrirsi l’arte. Del resto suggestioni tratte dall’opera del bardo di Avon sono disseminate in tutto il disco, a partire dal titolo tratto dal verso del noto Sonetto 18 e dal mio accento inglese, frutto di uno studio glottologico che mi ha portato a elaborare una via di mezzo tra le inflessioni tipiche della parlata delle West-Midlands del XVI secolo e alcuni tratti fonetici caratteristici del siciliano nordorientale.

Mi dai qualche spiegazione sulla copertina?
La copertina può essere criptica, e qualcuno di questi giovani relativisti politicamente corretti rincoglioniti dagli effetti dell’impoverimento del linguaggio politico e della capacità argomentativa che ha colpito il mondo di quella che io chiamo “sinistra confindustriale” l’ha persino definita “maschilista”. Perché ormai se esponi un corpo femminile ti devi anche beccare del maschilista. Vabbè, comunque, dicevo: la copertina può essere criptica, ma svela molte cose. Do qualche indizio, di per sé pleonastico se la si osserva attentamente, perché ognuno possa interpretarla alla propria maniera ascoltando l’album: è un corpo femminile regolare e longilineo, ben rappresentativo di un canone di bellezza universale, ma non nudo. Ha addosso della biancheria intima tipica di questo strano inizio di XXI secolo. Rappresenta il bello, l’Arte, ma è seduta sul cesso. Ed è un’Arte che ci dà le spalle. Perché ci dà le spalle? Chi riesce a risolvere il rebus, forse, avrà compreso parte dei miei intenti artistici.

Cos’è che ti piacerebbe venisse colto da chi ascolta il tuo disco?
Proprio in virtù di quanto appena detto mi piacerebbe che ne venisse colta la portata storica, e che non venisse automaticamente gettato nel graveolente paiolo della musica indipendente italiana degli anni Dieci. Non c’entra nulla. È un album del quale vorrei venisse colto il valore universale e l’intento universalistico; vorrei che venisse colto il suo tono autoironico, quel suo modo beffardo di essere politicamente scorretto; vorrei che venisse colto il fatto che quella della denuncia della decadenza delle arti sia in realtà un dipinto ben più articolato della mostruosità psicotropa del mondo contemporaneo; vorrei che venisse colto, che con spirito molto punk, di questo degrado a Johann Sebastian Punk apparentemente non importa nulla perché il disastro nucleare è come se fosse già avvenuto. Non sarà facile.

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