Leggo che il 25 aprile riapre al pubblico, a Trieste, il Faro della Vittoria, con le sue 8500 tonnellate, lungo quasi 68 metri di altezza, e col suo fascio di luce tra i più potenti al mondo, visibile com’è fino a oltre 35 miglia di distanza. E dire che quello del faro è un cuore piccolo: a irradiare questa ciclopica luce, infatti, è una lampadina alta solo quattro centimetri, e sottile come un dito, che esprime, però, una potenza di mille watt.

Dal Faro della Vittoria, “il più perfetto e interessante d’Italia”, si domina la città di Trieste. Costruito nel 1927, con la dea Nike a slanciarsi sulla cupola, celebrava, in onore dei caduti sul mare, la vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale e il conseguente ritorno “delle terre irredente alla Madrepatria”. Il Faro della Vittoria è un gioiello italiano. Importante anche simbolicamente, in tempi di nazionalismi di ritorno non macerati in trincea e sui campi di battaglia, ma magari in qualche circolo di raccolta di malcontenti sordi, o sui social network.

Trieste e sei in Italia, e nella Mitteleuropa da sempre. La luce dell’ingegnoso e altissimo Faro rischiara le tenebre della superstizione all’orizzonte. Il mare aspro, dolce e sconfinato, che è anche un ritmo di vita.Il mare dentroIl digradare dalla collina al porto, il primo dello Stivale per traffici complessivi. Il fitto reticolo di portici e piazze e café d’antan. Gli antichi rioni. L’immigrazione perfettamente integrata. Il rabbino dentro l’Agenzia ippica. La modernità che non ha corrotto un’invincibile tradizione. Le donne con occhi verdi e mercuriali, classiche, e moderne insieme; gli uomini raffinati e allampanati. La magnificenza delle palazzine liberty e lo splendore di Piazza Unità d’Italia, che al tramonto si illumina di mille luci blu.

A Trieste, città certo saggia e disincantata, i ventenni paiono esigui, e per di più dispersi in uno strano sincretismo di normali ma non conformistiche mode giovanili e di nostalgici del metal, del punk modello Belgrado anni ’80, di un alternativismo tutt’altro che barricadiero e ostile. A Trieste, tranne che nel weekend, dopo la mezzanotte non circola quasi anima viva. I concerti, le rassegne cinematografiche, gli spettacoli teatrali non sono concepiti per ingrassare qualche clientela e iniziano sempre in perfetto orario. A Trieste le ceneri della grande Storia ti lambiscono un po’ dovunque.

E poi c’è il Molo. Questa banchina sospesa sull’infinito. I triestini ci passeggiano lentamente, discretamente, immersi nei propri pensieri acustici, prima che faccia sera. Una straordinaria, quotidiana, questione privata.

Pasciute meduse sonnecchiano a pelo d’acqua. Le emozioni sono tenere, soffuse ma rigogliose. Girare senza far rumore. Ogni parola sarebbe di troppo, esecrabile.

Un peschereccio sospinto dal vento accarezza il cielo sotto di noi. Ci sono Joyce e Svevo a bordo. Scorgo anche Gabriel Garcia Marquez, un sigaro cubano in bocca, lì in plancia. Il Faro della Vittoria li illumina solennemente a mezzogiorno. I tre rispondono festosamente. “Vivete! Il tempo passa senza far rumore” strepita Gabo. Il mare s’inchina e gli dà il benvenuto. 

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