Davvero il decreto legge sui contratti a termine comporta una liberalizzazione semplificatrice? Dal punto di vista delle aziende aumentano solo le incertezze, almeno finché non sarà approvato dal Parlamento il testo definitivo. Conseguenze della semplificazione malfatta e moratoria legislativa. di Luigi Mariucci (Lavoce.info, 17 aprile 2014)

Un decreto dalle molte incertezze 

Il decreto legge n. 34/2014 è stato criticato da più parti, oltre che nel merito, soprattutto per una questione di metodo, data l’evidente contraddizione tra liberalizzazione dei contratti a termine e introduzione di un contratto di inserimento “a tutele crescenti”come strumento di razionalizzazione delle forme contrattuali annunciato dal Jobs Act e ora previsto dal disegno di legge delega. Alla critica il Governo ha replicato invocando la politica dei due tempi: il decreto servirebbe ora a dare una “scossa”, per favorire assunzioni semplificate, il disegno organico si farebbe dopo, attuando la legge delega. Ma è proprio così? Davvero siamo di fronte a una liberalizzazione semplificatrice?
Mettiamoci nei panni di una impresa che voglia assumere con un contratto a termine. Il decreto dice che il primo contratto può essere stipulato senza causale e prorogato ovvero rinnovato sempre senza causale per otto volte fino a tre anni. È quello che il decreto dice ora: non si sa, però, cosa dirà fra qualche settimana quando sicuramente in sede di conversione qualcosa verrà cambiato, come ha annunciato lo stesso Governo. Forse è meglio attendere. Già questo è un primo effetto negativo della legislazione stop and go all’italiana: non si sa mai quale sia la normativa attendibile.
Ma nel caso si decida ugualmente di assumere c’è da chiedersi quale termine di scadenza sia meglio indicare: allo stato attuale si potrebbe assumere con un termine abbastanza lungo, ad esempio per quattro o sei mesi, dato che otto proroghe in tre anni danno ampio margine. Ma se poi, in sede di conversione, come già si dice, le proroghe vengono ridotte e si passa a un arco di tempo inferiore, il termine lungo non conviene: meglio due mesi, massimo tre. Ecco che la legislazione variabile produce un altro effetto negativo, la ulteriore frammentazione dei termini, che non serve né alle imprese che vogliano investire sul lavoratore e non solo averlo come usa e getta, né, tanto meno, ai lavoratori, che in quel periodo piuttosto che cercare di legarsi all’impresa cercheranno altre forme di impiego solo che ne abbiano l’opportunità.
Il decreto dice anche che si può assumere o prorogare senza causa per il primo contratto e per le stessa attività lavorativa: ma se quel lavoratore è stato già assunto in passato, quand’è il “primo” contratto, e come si calcolano le diverse forme di assunzione temporanea (lavoro a termine, somministrazione, altre possibili forme atipiche), si sommano o no? E che succede se nel frattempo tra una precedente assunzione e nuove proroghe c’è un cambio di mansioni?
Comunque, si può obiettare che c’è da stare tranquilli perché ora è fissato un limite massimo di assunzioni a termine nel 20 per cento dell’organico, questa è una cosa sicura. Già, ma come si calcola la percentuale? Nel 20 per cento vanno incluse anche le assunzioni interinali e nell’organico vanno calcolati anche i contratti di collaborazione o le partite Iva? E che accade se il contratto di categoria stabilisce una limite inferiore? Siamo poi sicuri che la legge dia un colpo di spugna ai contratti vigenti? E se per caso l’impresa ha superato quel limite non essendo prima soggetta a vincoli quantitativi, deve licenziare i lavoratori temporanei in soprannumero? E se con le varie proroghe accade che una lavoratrice entri in maternità, siamo sicuri che non riassumendola non si incorra in un atto discriminatorio? Ed è proprio vero che tutta questa bella liberalizzazione mette al riparo dal contenzioso giudiziario? Non è che il lavoratore assunto senza causa e prorogato invoca la direttiva comunitaria che vieta le reiterazioni abusive dei contratti a termine, per la quale le assunzioni “sono di norma a tempo indeterminato” e si finisce alla Corte di giustizia europea? È bene tenere presente che quella direttiva è scritta in inglese, quindi non ha bisogno di essere “traducibile”, è comprensibile in tutte le lingue europee. L’elenco delle incertezze interpretative potrebbe continuare a lungo: basta vedere quanto hanno detto non i sindacati, ma gli esperti e gli operatori nelle audizioni alla Commissione lavoro della Camera per rendersene conto.

La questione dell’apprendistato

Si dirà, ma c’è pur sempre il buon contratto di apprendistato, molto conveniente sul piano contributivo e retributivo, ora semplificato, senza più l’obbligo del piano formativo scritto, della formazione trasversale e del vincolo di assunzione di almeno il 30 per cento di apprendisti come condizione per assumerne di nuovi. Già, ma è molto probabile che qualcuno di questi obblighi sia reintrodotto in sede di conversione parlamentare perché ci si è resi conto che un apprendistato senza formazione assomiglia come una goccia d’acqua ai vecchi contratti di formazione lavoro, a suo tempo caduti sotto la scure delle autorità comunitarie.
Meglio aspettare, quindi, e alla faccia della “scossa” o non si assume o si assume con un termine il più breve possibile.
Queste sono le conseguenze della semplificazione malfatta, della semplificazione che complica, già largamente sperimentata negli scorsi dieci anni nella caotica legislazione sul mercato del lavoro, sempre annunciata in nome della flessibilizzazione e della liberalizzazione. Meglio tenerlo presente, anche per non ripetere l’errore a scala più grande, quando si tratterà di attuare la legge delega che annuncia il vasto programma del codice del lavoro naturalmente “semplificato”. Forse è il caso di stare a vedere se i provvedimenti economici del Governo producono qualche risultato in termini di crescita della domanda e, nel frattempo, dare corso a una sana moratoria legislativa ovvero a una più approfondita riflessione.

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