Fino a 30 anni fa identità nazionale e culturale coincidevano, le minoranza c’erano ma i numeri esigui non erano tali da mettere in crisi nessuno. Le grandi immigrazioni dall’Africa, dall’Albania, dall’Europa dell’Est ci hanno colti impreparati, come al solito, come era accaduto negli anni sessanta per le immigrazioni interne. La percezione dell’altro come diverso, forse pericoloso, è stata facilitata dal colore della pelle, dalla lingua, dalla religione, dagli usi diversi.

Il fatto poi che importassimo anche una certa criminalità ha avuto un impatto emotivo formidabile, in una percezione di pericolosità molto sproporzionata rispetto alla realtà.

Oggi secondo stime confermate da più fonti ci sono forse 400.000 persone che sulle sponde libiche aspettano di imbarcarsi. Poiché ormai tutti i migranti sanno i rischi che corrono, è evidente che la disperazione che spinge questa migrazione è talmente grande da renderla inarrestabile. Cosa dobbiamo fare?
Le dighe legali o poliziesche non fermeranno uno tsunami. Lo scandalo delle rivolte con le bocche cucite, le attese interminabili nei centri di accoglienza li abbiamo rapidamente rimossi. Ci si arrocca in identità localiste per paura di perdere la propria, di cedere terreno. Le identità culturali ci sono e sono ricchezza, ma quando diventano identificazioni, stampelle dell’io, sono un pericolo psicologico, anzitutto per chi le vive. E dal pericolo psicologico al pericolo sociale il passo è breve. Pensate alla caccia all’assassino forestiero per Yara.

Oltre ai provvedimenti legislative e all’accoglienza possibile l’Europa deve attrezzarsi culturalmente: altri paesi hanno già fatto questa esperienza con le ex colonie, e nessuna ricetta è facile.

Negli anni settanta c’era qualche studente eritreo nelle scuole: erano pochi, bene integrati nelle classi. Uno di questi, Brahn Tesfa è diventato scrittore ed editore: ha scritto un libro spigoloso , ‘Specchi sbagliati’ (edizioni SUI), che mi ha fatto molto riflettere, al di là di ogni considerazione letteraria. E’ una storia di seconda generazione, che racconta il conflitto degli adolescenti nati e cresciuti in Italia con se stessi, con la loro famiglia, con gli italiani più o meno consapevolmente razzisti ( imbarazzismi è il neologismo di un medico del Togo, Kossi Komia Ebrè). Essere integrati non vuol dire essere assimilati, occorre un confronto e una condivisione, dove le differenze, le frontiere culturali siano non solo separazione ma anche suture, partendo dal considerarsi terrestri prima di italiani, marocchini e albanesi.

Nei tempi di crisi economica ci si incattivisce, i linciaggi dei neri nel sud degli Stati Uniti aumentavano negli anni di carestia, quando i bianchi poveri si trovavano ad essere nella stessa condizione di miseria dei braccianti neri. La vera integrazione riguarda tutti e richiede differenze, conoscenza, mediazione culturale e condivisione. Molto passa attraverso la condivisione del cibo e del sacro. Ma di questo bisognerà parlare un’altra volta.

 

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