A chi è in cerca di chiavi di lettura per comprendere la situazione economica, politica e sociale attuale consiglio di dare uno sguardo alla recente storia dell’Islanda: dapprima laboratorio liberista, in seguito – dopo lo scoppio violento della crisi – incubatrice di tendenze opposte, dunque protagonista di una miracolosa ripresa economica, infine scissa fra modelli socio-economici contrastanti.

Cosa potrà mai insegnare, mi si obietterà, la storia di un’isoletta di ghiaccio e vulcani sperduta e marginale con le sue 300 mila anime e poco più, a noi, numerosi e chiassosi cittadini dell’Europa mediterranea? Ma a volte è proprio osservando ciò che è più piccolo che riusciamo a cogliere l’immensamente grande. “L’Islanda ci appare come un piccolo poggio sul prato del mondo”, scrive il romanziere islandese Einar Mar Gudmundsson nel suo Libro Bianco.  “Ma non è detto che, se si osserva questa collinetta con una lente d’ingrandimento, non vi si trovi proprio il mondo civilizzato stesso!”

E in effetti osservando l’Islanda si possono cogliere, compresse nel tempo e nello spazio, tendenze e parabole globali. L’isola è stata fra gli ultimi paesi occidentali ad aprirsi ai mercati internazionali e alla finanza globale, ma lo ha fatto totalmente e senza protezioni. Una classe politica che si ispirava alle teorie neoliberiste di Milton Friedman (al punto da invitare il fondatore della scuola di Chicago a Reykjavik per “istruirli”) è salita al potere al principio degli anni novanta, con l’obiettivo dichiarato di rivoluzionare l’impianto economico, politico e sociale del paese.

Nel rapido volgere di pochi anni una società paritaria e coesa, con un’economia chiusa e locale, retta da un senso comunitario molto forte e poggiata su uno stato sociale particolarmente sviluppato, si è trasformata in una società competitiva, dalle enormi differenze interne, basata sul consumismo e sull’estrema finanziarizzazione dell’economia.

Poi tutto è finito di colpo. È bastato che i mercati finanziari globali si contraessero in seguito alla crisi dei mutui subprime statunitensi perché le tre principali banche del paese -privatizzate in blocco nei primi anni Duemila- crollassero fragorosamente nel giro di pochi giorni.

Fu uno shock per gli islandesi, che si ritrovarono di colpo sommersi di debiti, senza sapere cosa fosse successo né come. Dalle macerie però, nacquero nuove spinte di tendenza opposta. Ed ecco che l’Islanda divenne incubatrice di un modello alternativo: una serie di rivolte costrinsero il governo alle dimissioni, assieme alle istituzioni di controllo finanziario. Seguirono conquiste straordinarie, fra cui il rifiuto di socializzare il debito lasciato in eredità dalle banche fallite, la stesura di una nuova costituzione scritta in crowdsourcing, nuove leggi sulla libertà d’espressione su internet.

Tuttavia, oggi, il benessere recuperato molto in fretta è forse il peggior nemico delle spinte di cambiamento emerse negli ultimi anni. Se da un lato sembra essersi affermata l’idea che il capitalismo finanziario sia qualcosa di estremamente rischioso, dall’altro le politiche neoliberiste, pur in forma più soft, sono di nuovo portate avanti dal recente governo di centro-destra. Oggi l’isola è in bilico fra tendenze e modelli opposti.

Dunque cosa ci insegna la storia dell’Islanda? Ci insegna a mettere in discussione alcuni dogmi della società contemporanea: in primis quel paradosso del mercato che vuole che i debiti privati -se i privati sono di una certa dimensione- diventino pubblici quando il privato fallisce. Ci insegna che è possibile costruire delle alternative dal basso a questo modello di sviluppo. Ci insegna anche che quella finestra di potenziale cambiamento che stiamo vivendo, che si apre quando finisce un ciclo dell’economia capitalista, è destinata a chiudersi quando un nuovo ciclo prende il via: dunque le alternative costruite all’interno di questa finestra devono sedimentare e andare a sistema prima della “ripresa”, se il cambiamento intravisto ambisce ad affermarsi come nuovo modello.

Tutto questo ci potrebbe insegnare l’Islanda. Purtroppo nessuno ne parla. A luglio scorso è uscito un mio libro sull’argomento, Islanda chiama Italia. Adesso, assieme a Tv Popolare, vorremmo realizzare un documentario per raggiungere anche un altro tipo di pubblico, possibilmente più ampio. Per finanziarlo stiamo realizzando una campagna di crowdfunding, alla quale tutti possono contribuire in maniera diversa, ricevendo una ricompensa che varia a seconda della cifra versata. Alla fine della campagna le donazioni diventeranno effettive solo se la soglia prefissata (nel nostro caso 50 mila euro) sarà raggiunta; altrimenti torneranno al mittente. Il documentario si chiamerà proprio Un piccolo poggio sul prato del mondo, riprendendo la citazione di Einar Mar.

Scriveva Jorge Luis Borges: Più strano e più simile a un sogno è il destino scandinavo. Per la storia universale, le guerre e i libri scandinavi è come se non fossero esistiti; rimangono isolati e non lasciano traccia, come se si fossero verificati in sogno o in quelle sfere di cristallo che scrutano gli indovini. Nel secolo XII, gli islandesi scoprono il romanzo, l’arte di Cervantes e di Flaubert, e questa scoperta è segreta e sterile per il resto del mondo, così come la loro scoperta dell’America”. Facciamo in modo che sulle ultime scoperte islandesi non cada lo stesso, eterno, silenzio.

Andrea Degl’Innocenti

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