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Dalla rapina di via Osoppo a piazzale Lotto, la “cattiva educazione” di Jess il bandito

Al secolo Arnaldo Gesmundo, uno dei sette uomini d'oro che a Milano il 27 febbraio 1958 misero a segno una colpo clamoroso senza sparare nemmeno un colpo. Assieme a Metteo Speroni, giornalista del Corriere, ha raccontata la sua vita in Il ragazzo di via Padova, vita avventurosa di Jess il bandito (Milieu Edizioni)

di Matteo Lunardini

“Io sono il prodotto di una cattiva educazione”. Un tempo Arnaldo Gesmundo era conosciuto come Jess il bandito. Ora ha 84 anni. Alla fine degli anni Cinquanta fece parte dei “sette uomini d’oro” capaci della prima rapina spettacolare della storia italiana. In via Osoppo, a Milano. Un dream team del crimine, quella batteria: Enrico Cesaroni (della banda omonima), Ugo Ciappina (della banda dovunque), Arnaldo Bolognini (ex staffetta partigiana), Nando il Terrone, Luciano De Maria, Eros Castiglioni e lui, Arnaldo Gesmundo. Avevano tutti cominciato con furtarelli in stile ligera, la vecchia mala dal crimine ‘leggero’, senza armi e con molta fantasia: reati commessi con il ‘sistema del buco’, come ne I soliti ignoti di Mario Monicelli. Poi, il 27 febbraio 1958, il salto di qualità. È il giorno di “San Paganino”. Un furgone porta valori viene centrato in via Osoppo da un’auto della banda (come ne L’audace colpo dei soliti ignoti, di Nanni Loy, 1959). E l’auto, cui Gesmundo si dimentica di staccare i contatti, prosegue la corsa scontrandosi con una casa. “Un’auto telecomandata” scrivono erroneamente i giornali. Montanelli rincara la dose: “La rapina di via Osoppo era ‘seria’. Deprecabile ed esecranda quanto si vuole. Ma seria. Non abbiamo ancora lo ‘Sputnik’. Ma si comincia ad avere una malavita in tono con il progresso tecnico e scientifico dell’umanità più elevata.”

E invece la banda non era assolutamente un campione di efficienza. Si fece acciuffare per aver gettato le ‘tute blu’ usate per la rapina nel vicino Olona, poco prima che il canale venisse prosciugato per poi essere coperto. Anche del bottino, quasi 600 milioni, godranno pochi mesi. Poi lunghi anni di carcere, sebbene non avessero mai sparato un colpo. E la leggenda. Da quel giorno, infatti, se a Milano dici ‘la Osoppo’ nessuno pensa alle brigate partigiane. Ma alla banda di Gesmundo e soci. Passati alla storia perché durante la rapina puntano i mitra contro un uomo al balcone e urlano ta-ta-ta, come se fossero bambini con il fucile di legno. E a una “sciura”, che con pragmatismo tutto milanese ordina loro di “andare a lavorare”, rispondono, con altrettanto pragmatismo: “E perché? Cosa stiamo facendo?”. Una banda alla milanese, insomma: zero fronzoli, due battute e tanti sogni di grandeur.

A distanza di anni Arnaldo Gesmundo ha deciso di raccontare la sua vita a Matteo Speroni, giornalista del Corriere della Sera e autore da sempre attento alle storie provenienti dai quartieri più periferici di Milano. Ne è nato un libro: Il ragazzo di via Padova, vita avventurosa di Jess il bandito (Milieu Edizioni). È un dialogo che parte da piazzale Lotto, dove il vecchio bandito incontra il giornalista, e prosegue verso via Arquà, dove Jess è nato. È una traversa di via Padova, strada ancora oggi conosciuta in tutta Italia per le storie di cronaca nera. Ma anche per il suo indomito spirito di riscatto. Proprio come Arnaldo Gesmundo, che in carcere conosce le vessazioni più atroci e l’etichetta perpetua di criminale, oltre a un cumulo di pene per reati non commessi che gli piovono addosso proprio a causa della “leggenda di via Osoppo”. In carcere conosce però una risorsa inaspettata: i libri. Soprattutto di procedura penale, materia nella quale diventa un esperto. Con i libri trova l’umanità di un cappellano, don Cesare Curioni, e l’amicizia di Alighiero Noschese e Alfredo Pigna. Nonché l’aiuto di un giornalista, Franco Di Bella, col quale nel tempo nasce un lungo carteggio (riportato nel libro e ricordato dal figlio Antonio in una affettuosa prefazione).

Una vita segnata da via Osoppo, quella di Jess. E da una cattiva educazione. Prima il fascismo, con il culto della violenza e delle armi insegnato ai “figli della Lupa” come lui. Poi la guerra civile, con la Legione Muti che lo bracca per aver gettato un calamaio contro una foto del Duce. E i film, come nel suo esordio criminale: “Ci ispirammo ai film americani: un colpo in testa con il calcio della pistola e conseguente caduta del rapinato”. Naturalmente andò tutto storto: il malcapitato non cadde e inseguì gli aggressori. Gesmundo ci ride ancora. “Nei nostri calcoli criminosi non avevamo considerato che nei film, quando il rapinato prende un colpo in testa e cade svenuto, è sempre d’accordo con il regista”. Infine l’educazione riaggiustata in carcere grazie ai libri. Una nuova coscienza che lo porta a dire: “Nelle periferie invece dei bar bisognerebbe aprire più biblioteche”. Perché è dalla via dove si nasce che inizia la vita di ognuno di noi. E Gesmundo l’ha capito a sue spese. “Prima di giudicare i banditi come pericolosi criminali o come eroi romantici bisognerebbe capire dove sono nati e cresciuti”.

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