Surreale, visionario, onirico: sono molti i modi in cui si tenta di classificare lo stile di Michel Gondry, regista, produttore, attore e sceneggiatore francese. Nessuno di questi, però, sembra definire al meglio il suo eclettismo: Gondry ha sperimentato i generi più diversi, dai videoclip, agli spot, ai film (suo l’indimenticabile Eternal sunshine of the spotless mind – Se mi lasci ti cancello, Oscar 2004 per la sceneggiatura), ma tutta l’opera sembra avverare la sua prima ambizione di bambino, quella di diventare un inventore e, al tempo stesso, un pittore. La cinepresa gli ha permesso di essere entrambe le cose rendendolo agli occhi dei cinefili, soprattutto dei più giovani, un regista cult. “Cult? Vous avez dit ‘cult’? Pas moi – risponde divertito al fattoquotidiano.it Gondry, a Roma per il Festival del nuovo cinema francese ‘Rendez-Vous’ – Probabilmente i ragazzi sono attratti dalla possibilità di interpretare le cose in maniera differente, a costo di risultare nostalgici. È in questo forse che si cela la modernità, ben più difficile da controllare rispetto alla diversità”.

Il cineasta trasversale e bricoleur, l’artigiano dei sogni, il modellatore di idee si diverte e sorprende. E dà vita a un prodotto ibrido che unisce scienza e animazione: uscirà in Italia a ottobre, distribuito dalla giovane I Wonder Pictures, il documentario Is the man who is tall happy?, conversazione ‘animée’ tra Noam Chomsky, padre della linguistica generativa (finito di recente nei test d’ingresso universitari), e lo stesso Gondry. Nel film, le teorie spiegate dal filosofo americano prendono forma grazie alla penna del regista, che le disegna e le anima man mano che le comprende. Gondry monta dai 12 ai 24 fotogrammi al secondo e alle immagini delle interviste, fatte a più riprese a partire dal 2010 con una cinepresa Bolex 16 mm, il cui rumore entra nel sonoro, lascia appena il 2 percento del totale delle scene. 

“Ho scelto Chomsky perché è l’unico pensatore vivente noto sia per il suo lavoro scientifico sia per il suo attivismo politico – ci spiega il regista – Noam è considerato l’Einstein della linguistica ma il suo approccio politico è altrettanto dettagliato, critico, forte”. La scelta di illustrare concetti così complessi non ha la pretesa di dare un’interpretazione univoca e universale alle teorie: “Ci sono momenti in cui impiego cinque minuti a spiegare una singola parola, ed è bizzarro visto si tratta di un film sulla linguistica. Forse era colpa mia: facevo domande stupide e facevo finta di capire anche quando non riuscivo. Le animazioni di Is the man who is tall happy? sono frutto della mia interpretazione, ovvero di ciò che ho compreso e che voglio restituire al pubblico”. Procedimento simile a quello che ha ispirato Mood indigo (2013), adattamento cinematografico del libro di Boris Vian L’écume des jours: “L’avevo letto da adolescente: mi era sembrata una storia cupa e pura. Quando l’ho riletto da adulto, ho avuto voglia di trascrivere le sensazioni che avevo provato, integrando i ricordi e le memorie di ragazzo con quelle vissute nella mia seconda lettura”.  

Sia che si tratti di teorie filosofiche, di sentimenti o di musica (Gondry è autore di videoclip per Bjork, Daft Punk, White Stripes, Beck e The Chemical Brothers), il cineasta si serve delle sue visioni per decostruire la realtà e riproporla in maniera semplificata. “L’animazione mi permette di creare una dimensione invisibile, rendendo materiale ciò che è astratto e inanimato. Ho bisogno di muovere le mie figure, di filmarle e assemblarle una di seguito all’altra. E ad ispirarmi sono sempre le esperienze e i sogni che non ho realizzato nella vita e che con il cinema riesco a ricreare”. Sarà così anche per il prossimo film, ancora in progetto che, ci spiega Gondry, “racconterà la storia di due adolescenti speciali che, per realizzare il loro sogno di viaggiare, si fabbricheranno una macchina e la dipingeranno come una piccola casa. Così sfuggiranno ai controlli della gendarmerie”.

L’onirismo di Gondry è talmente calato nel reale che i piani rischiano di confondersi. Ma c’è un limite: “Anche se c’è un ambiente ricco di elementi, tento di focalizzarmi sulla recitazione degli attori, lasciando loro la possibilità di vivere veramente la scena e di improvvisare la recitazione. Per questo lo storyboard che costruisco non è mai troppo rigido. A volte ho troppe idee e mi dico di concentrarmi sulla storia: è un dilemma vero ma alla fine di tutto è fondamentale lasciare allo spettatore l’impressione di aver viaggiato”.

di Linda Ferrondi e Paola Maola

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