“Si poteva fare un salto a Piccadilly Circus o su altri set cinematografici popolati da comparse provenienti da ogni parte del mondo. In quei luoghi, un disertore dell’esercito americano al tempo della Guerra in Corea, ormai anziano, sposato con una thailandese rapita a Macao, poteva ritrovarsi a bere tè rosso dello Sri Lanka con una francese, trascinata lì a sua volta con la scusa di un lavoro promettente. In un certo senso, quelle comparse straniere non erano diverse dai docenti inglesi che insegnavano la loro lingua nelle scuole private di Tokyo o di Seoul. Anche loro, infatti, di giorno aiutavano a utilizzare una lingua straniera, e poi, di sera, dopo il lavoro, trascorrevano qualche ora con la loro dolce metà davanti a un televisore. Con due piccole differenze, però: al Nord la televisione funzionava soltanto sei ore al giorno ma, soprattutto, a chi finiva da quelle parti non sarebbe stato mai concesso di tornare nel proprio Paese d’origine.”

Sono stato fortunato per quello che riguarda le mie letture “nordcoreane”. Sia La parata“, il romanzo breve dell’eclettico Filippo Landini (Lite Editions), storia erotica ambientata in una scuola di Pyongyang, sia “Il signore degli orfani“, capolavoro di Adam Johnson (pubblicato in Italia da Marsilio), hanno ricostruito ottimamente, secondo il mio punto di vista, la realtà misteriosa della Corea del Nord.

Anche “L’impero delle luci“, dello scrittore sudcoreano Kim Young-ha (edito in Italia da Metropoli d’Asia e tradotto mirabilmente da Andrea De Benedittis, che cura anche la postfazione) che ho finito di leggere qualche giorno fa, mi ha soddisfatto ampiamente.

Pubblicato nel 2006, il romanzo rappresenta una delle opere di spicco di un autore originale e provocatorio. Il protagonista, Kim Kiyong, proprietario di una piccola società d’importazione di film stranieri, inizia una sua tipica, banalissima giornata di lavoro. Come sempre si è svegliato in orario, i suoi affari vanno a gonfie vele e la famiglia lo adora. Tutto inizia nella più opprimente delle routine, ma, appena arriva in ufficio, basta un messaggio nella sua casella di posta a infrangere l’illusione di questa apparente normalità: basta un messaggio per far tornare alla mente del protagonista la sua vera identità: lui è in realtà una spia nordcoreana, arrivata vent’anni prima a Seoul, ma poi dimenticata per chissà quale motivo dai suoi stessi mandanti. Rimasto nel Sud come una monade e abbandonato da tutti, si era allora visto costretto a recuperare una propria identità e a ricostruirsi una propria vita, adattandosi a un mondo del tutto differente da quello dal quale proveniva. E proprio ora che tutto sembrava andare per il verso giusto, ecco che qualcuno al Nord si era improvvisamente ricordato di lui e gli chiedeva di rientrare a Pyongyang. In meno di ventiquattr’ore.

La struttura è quella della spy-story classica, ho trovato echi di Graham Greene e di Eric Ambler, ma la differenza sostanziale rispetto a questi inarrivabili scrittori sono la connotazione urbana (la Seoul degli anni ’80 e quella dei giorni nostri, proiettata verso un futuro senza anima, e la Pyongyang degli anni ’70) e la presenza di co-protagonisti lontani anni luce dai personaggi dei romanzi di spionaggio che siamo soliti leggere, in primis la figlia adolescente di Kim Kiyong, alle prese con un fidanzatino timido e il suo amico immaginario, e la moglie, quarantenne con un passato di studentessa radicale e ora donna di mezza età forse innamorata, forse no, di un ventenne che la spinge a consumare pratiche erotiche di gruppo assieme ai suoi amici universitari.

Mentre la storia procede veloce e senza sosta, rapida come la metropolitana di Seoul e il traffico impazzito della capitale sudcoreana con le sue mille luci, gli effluvi dei ristoranti e dei chioschi ambulanti, il lettore viene condotto in una sorta di sentiero segreto, fatto di ricordi e di panoramiche sulla vita quotidiana nell’altra Corea, sui dubbi del protagonista verso la fedeltà al sistema capitalista o al sistema socialista (o quello che ne rimane dopo più di sessant’anni di follie dinastiche).

Seguo attentamente Metropoli d’Asia, è un editore con un catalogo notevole, e “L’impero delle luci“, insieme a “Malesia Blues” di Brian Gomez, credo sia uno dei volumi più riusciti. Difficile smettere di leggere e non appassionarsi alle vicende di Kim Kiyong e della sua stralunata famiglia, non provare tenerezza per tutti loro e non avere una voglia malsana di prendere il primo volo per la Corea.

Kim Young-ha è nato nel 1968 a Hwach’on, approdò a Seoul nel 1980, dopo aver seguito le varie tappe della carriera militare del padre. Al suo debutto, nel 1995, nella rivista letteraria Review, con il suo romanzo “Io ho il diritto di distruggermi” (pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia e tradotto sempre da Andrea De Benedittis), ottenne il premio come migliore autore nel concorso Munhaktongne. A quell’opera sono seguiti nel 1997 il romanzo breve “Chiamata” e nel 1999 “Cosa ci fa un morto nell’ascensore” che, insieme ai suoi lavori più celebri (“L’impero delle Luci“, “Fiore nero” e “Quiz show“) gli hanno assicurato sempre ottime recensioni. Tradotte in tutto il mondo, le sue opere hanno ispirato film e serie televisive di notevole successo.

 

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