“Il sito chianti.wine di proprietà di un’azienda asiatica o americana? Così si vende il futuro del nostro commercio. E c’è il rischio che i Paesi che producono qualità ed eccellenza perdano milioni, miliardi di euro di fatturato”. Antonio Iannotti, del portale produttorivini.it, è preoccupato dalla decisione dell’Icann di liberalizzare i domini di primo livello (tld, top level domain) .wine e .vin. L’autorità americana che dal 1998 si occupa dell’assegnazione dei domini ha infatti stabilito che i due tld in questione saranno ceduti al miglior offerente, senza alcuna tutela delle indicazioni geografiche e dei relativi marchi. Una decisione che, dato lo sviluppo dell’e-commerce su scala globale, potrebbe incidere gravemente sui fatturati nostrani. Tradotto: potrebbe essere che barolo, barbera, lambrusco e morellino con estensione .wine, rappresentino aziende che non producono l’originale E allora addio dop, punta di diamante del settore agrolimentare Made in Italy

“Generazioni di famiglie che amano la terra su cui hanno investito sarebbero penalizzate, perché non viene posta nessuna attenzione al territorio – prosegue Iannotti -. Ormai una buona fetta del fatturato dell’industria vinicola italiana si sviluppa online. Perché non parliamo solo di e-commerce, ma anche di vendite via web ai grandi importatori“. E le aziende produttrici “usano il loro sito come biglietto da visita, che diventa – ancor prima delle fiere – il primo contatto con potenziali o futuri acquirenti“. Quindi il sito “vale tantissimo”. La decisione di Icann, secondo Iannutti, non danneggia soltanto il produttore – che sarà fagocitato “da multinazionali del vino”, in grado di accaparrarsi anche i domini di secondo livello che connotano il made in Italy – ma anche il cliente che “così si troverà tra le mani un prodotto certamente a prezzi più competitivi, ma di qualità inferiore se non si affida anche alla provenienza territoriale. Mi aspetto che il ministero dello Sviluppo faccia sentire la sua voce”.

Anche per Matilde Poggi, presidente di Fivi (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, associazione che fa parte di CeviEuropean Confederation of Independent Winegrowers) il danno si rifletterà su clienti e produttori. “E’ molto grave non tutelare le denominazioni geografiche – spiega – si potrebbe anche configurare una truffa ai danni del consumatore, a cui viene proposto un prodotto che non corrisponde all’originale”. In pratica, un’imitazione peggiore dell’orginale. “Purtroppo è un tema di cui si è parlato poco finora, forse se ne discuterà al Vinitaly. Ma è pur vero che i provider iniziano a muoversi e ad avanzare ai produttori la proposta del nuovo dominio”. Se ne parla poco e, forse, tra le aziende vinicole non c’è la consapevolezza del rischio. “In Italia i vignaioli (filiera corta: producono, imbottigliano e vendono il loro prodotto) non si preoccupano di essere rappresentati. Il contrario di quanto fanno, invece, i loro colleghi francesi”. 

Denis Pantini, responsabile agroalimentare di Nomisma e project leader dell’osservatorio Wine Monitor conferma quanto spiegato da Iannutti e Poggi: “Trovare chianti.wine nelle mani di un’azienda africana o australiana può creare notevoli distorsioni”. Il timore riguarda soprattutto il mercato globale, perché “il vino, a livello nazionale, rientra nella nostra tradizione alimentare. Quindi conosciamo il prodotto”. Non è così per i mercati emergenti “dove, soprattutto i nuovi consumatori, dunque i giovani, si informano e comprano su Internet. Il rischio è che l’utente inesperto compri un tipo di vino tipicamente italiano da un altro Paese, senza sapere che l’originale non proviene da lì”. Pantini, poi, ricorda che, a livello globale, il potere imitativo del marchio italiano è forte, grazie alla capacità attrattiva del Made in Italy. “Negli Usa – conclude – ci sono tanti esempi di case produttrici che riportano la denominazione chianti ma non sono toscane. E chi non ha mai assaggiato un vero vino italiano, non comprende la differenza con la copia”. 

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