L’abolizione o la trasformazione del Senato può alleggerire l’iter di approvazione delle leggi, ma fa venir meno quel potere di veto di un’istituzione che è stato un importante presidio della democrazia negli ultimi anni. Di Valentino Larcinese (Lavoce.info, 4 aprile  2014) 

La Costituzione detta le regole fondamentali del nostro stare insieme. È dunque importante che proposte di cambiamento della carta costituzionale non marginali, quali l’abolizione del Senato, siano il più possibile discussi pubblicamente. L’insofferenza per questo dibattito più volte espresso dal nostro Governo non ha molte giustificazioni, soprattutto in un paese con una storia di dittature e rigurgiti autoritari come l’Italia.

Nel merito della proposta di abolire (o meglio, di trasformare) il Senato cercherò in questo articolo di argomentare i seguenti tre punti:
1. Che l’abolizione del Senato come camera elettiva e la cui fiducia è necessaria per l’esecutivo non reca di per sé alcun danno. Molti paesi hanno sistemi monocamerali che funzionano bene.
2. Che il rafforzamento dell’esecutivo e l’abolizione del Senato è invece un problema se nel contempo si introduce una legge elettorale tale per cui i parlamentari sono di fatto nominati dai candidati a guidare l’esecutivo.
3. Che le riforme costituzionali dovrebbero seguire e non anticipare una soluzione al problema del conflitto d’interessi. I nostri mass media non sono in grado di svolgere la funzione di watchdog che dovrebbero svolgere in una democrazia sana. In un simile contesto rafforzare l‘esecutivo significa aumentare il rischio di una deriva autoritaria.

I due lati della medaglia

Nel discutere questi tre punti è utile partire da un risultato ben noto agli scienziati politici: in un processo di decisione collettiva includere più veto players (ossia più decisori con potere di veto) riduce gli spazi di cambiamento e favorisce la permanenza dello status quo. Ci sono momenti in cui lo status quo può essere fatale e occorre muoversi. Sono d’accordo con quanti sostengono che in questo momento la politica deve essere messa in grado di prendere decisioni. L’abolizione (o la trasformazione) del Senato rientra in questa logica. Questo ci pone di fronte a quello che in inglese si chiama un trade off: si ottiene qualcosa solo rinunciando a qualcos’altro. L’abolizione del Senato per l’appunto presenta un trade off: si abolisce un veto player e dunque si incrementa lo spazio delle decisioni politicamente possibili; si riduce però il controllo sull’esecutivo e dunque aumenta la possibilità di policy drift, ossia la possibilità per l’esecutivo di spingere le politiche più lontano da quelle che sono le preferenze dei cittadini (rappresentati in Parlamento). I termini di questo trade off cambiano nel tempo: alle volte è più importante poter bloccare decisioni dannose, in altre è più importante facilitare il cambiamento. Oggi, probabilmente a ragione, si tende a privilegiare il secondo aspetto.

L’Italia non è un’eccezione: questo è un dibattito in corso in tutti i paesi democratici, incluse le democrazie anglosassoni che hanno una solidità istituzionale ed una storia ben diversa dalla nostra. E tuttavia le riforme costituzionali sono spesso dibattute ma raramente attuate, come mai? Perché cambiare le regole del gioco non è ordinary policy come può esserlo un aumento delle tasse sugli immobili o una riforma delle pensioni: si cambiano le regole dello stare insieme, bisogna andarci cauti ed avere ponderato molto attentamente le possibili conseguenze. Purtroppo non mi pare che questo stia succedendo oggi in Italia.

Separazione dei poteri sotto attacco 

Nelle parole e negli atti di tanti politici della cosiddetta seconda repubblica la decisione democratica è spesso stata confusa con una sorta di dittatura della maggioranza. Ma prima che si possa procedere alla conta la governance democratica si fonda sulla separazione dei poteri. Negli anni della Seconda Repubblica questa separazione ha tremato. I rappresentanti dei cittadini, a partire dal 2006, sono stati scelti dalle segreterie dei partiti, ossia dalle stesse poche persone candidate a posizioni di vertice nell’esecutivo. Non solo: si è ripetutamente affermato pubblicamente da parte di politici di primo piano il principio per cui il ricevere voti porrebbe un cittadino al di sopra della legge. Berlusconi ha più volte esplicitamente contrapposto il consenso che lo circonda al fatto che i giudici “non sono eletti da nessuno”. Abbiamo dunque assistito ad un attacco al principio della separazione dei poteri in nome della maggioranza, un rozzo tentativo di ritorno all’ancien regime, con un monarca assoluto legittimato dalla maggioranza anziché dalla volontà divina. Ciò che ha impedito questa deriva autoritaria è stato per l’appunto la presenza di molti veto players, un sistema di controlli che ha funzionato ed ha salvato, per ora, la nostra democrazia.

Dal Porcellum all’Italicum cambia poco

La proposta di legge elettorale battezzata Italicum non risolve nessuno dei problemi introdotti nel 2006 dal Porcellum: le liste chiuse non permetteranno ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti che, di fatto, continueranno ad essere nominati dalle segreterie. L’unica vera novità dell’Italicum è l’innalzamento delle soglie per accedere alla rappresentanza. Come l’abolizione del Senato, questa riforma va nella direzione di ridurre il numero dei giocatori in campo e favorire la governabilità. E tuttavia con questa legge si permette che un partito con il 7,99% dei voti (quasi tre milioni di voti, per intenderci) ma che non voglia apparentarsi con nessuno dei partiti maggiori, rimanga un partito extraparlamentare. In questo contesto chi vince si trova a governare senza dover mediare né con i propri parlamentari (in quanto nominati dallo stesso potere esecutivo), né con altre forze politiche (fortemente sottodimensionate o escluse dal parlamento). Non è chiaro in un contesto di questo tipo che significato assumerebbe la separazione di poteri fra esecutivo e legislativo, né quale funzione di controllo l’organo legislativo potrebbe effettivamente svolgere. L’abolizione di un veto player quale il Senato rafforzerebbe ulteriormente un rapporto di sudditanza del potere legislativo verso l’esecutivo

Quarto potere

L’ultima considerazione riguarda quello che, non senza motivo, è stato chiamato il quarto potere. Per un corretto funzionamento dei meccanismi democratici è essenziale che l’informazione sia, per quanto possibile, plurale. È utile forse ripetere ancora che nelle attuali circostanze di concentrazione mediatica questo non è possibile. Ridurre il numero di veto players in queste circostanze aumenta il rischio di una deriva autoritaria anche perché buona parte dell’informazione, anch’essa in rapporto di dipendenza con la politica, non svolge il ruolo di cane da guardia (watchdog) che le compete in una democrazia sana. Sarebbe stato ad esempio molto meglio affrontare la questione del conflitto d’interessi prima di mettere mano a riforme costituzionali.

Valentino Larcinese

Insegna alla London School of Economics ed è research associate presso il centro di ricerca STICERD. Si occupa del rapporto fra istituzioni, processi di decisione collettiva e politiche pubbliche. Ha pubblicato ricerche riguardanti il comportamento politico dei mass media, l’impatto di quotidiani e televisione sul comportamento degli elettori, i costi della politica, il rapporto fra spesa pubblica e risultati elettorali, gli effetti redistributivi dell’IRPEF. Si è laureato in Discipline Economiche e Sociali presso l’Università Bocconi di Milano ed ha conseguito il PhD in Economia presso la London School of Economics.

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