Il 17 Gennaio 1961 Dwight Eisenhower, 34esimo presidente degli Stati Uniti d’America, compì l’atto pubblico conclusivo dei suoi due mandati che avevano coperto l’arco di otto anni di storia americana, dal 1953, quando aveva vinto le elezioni presidenziali contro Adlaj Stevenson, al 1961 quando passava le consegne a John F. Kennedy.

Otto anni di presenza sullo scenario internazionale che avevano perseguito due obiettivi fondamentali: il containment dell’influenza politica del sovietismo e la solidarietà con i governi alleati dell’Europa occidentale.

Il modello di Yalta era sopravvissuto a Stalin, morto proprio agli esordi del primo mandato di Eisenhower, e il futuro sarebbe stato dominato dalla turbolenza degli equilibri internazionali. Dwight Eisenhower, candidato dei repubblicani, in diverse circostanze aveva ammonito gli alleati europei a costruire un assetto diverso con maggiori responsabilità per i nuovi soggetti esclusi da Yalta comunque intenzionati a svolgere un ruolo nella ribalta internazionale. Il capitolo di Tito è ancora tutto da scrivere, come è ancora da scrivere la vera portata e il significato della crisi di Suez del ’56.

Eisenhower era il classico conservatore americano che in politica estera alterna i principi irrinunciabili al pragmatismo dei risultati da acquisire giorno per giorno,con pazienza, ascoltando tutti. Un misto di intransigenza e flessibiliatà che il comandante in capo delle forze alleate in Europa aveva dimostrato nella organizzazione militare.

Lo sbarco in Normandia, l’azione militare più imponente di coinvolgimento delle truppe aero-terrestri-navali della storia tale da oscurare nell’immaginario collettivo la traversata delle Alpi di Annibale con le sue elefanti, fu un altro capitolo di questa flessibilità dello stratega.

Eisenhower non era un pacifista. Come tutti i veri militari (di carriera) non amava la guerra. Sapeva con Von Clausewitz , che aveva studiato a West Point, che essa diventa necessaria quando le ragioni della buona politica sono impotenti. Ma il tempo della pace è della politica. Così come l’uso razionale della forza, non la violenza, è la regola della guerra. Era giunto a manifestare forti dissesni sulle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, perché le pensava inutili su un Giappone già prostrato.

In quel discorso di commiato Eisenhower avrebbe potuto limitarsi al rendiconto protocollare di quanto avevano fatto le sue amministrazioni con il bilancio largamente positivo dei successi e degli insuccessi.

Ma scelse un altro taglio: parlò, lui presidente militare come lo era stato Grant, di industria militare e della influenza negativa sul meccanismo della decisioni in democrazia. Parlava al popolo americano del domani (il nostro oggi) e precorreva i tempi. Guardava avanti anche se sapeva che le preoccupazioni contingenti dell’opinione pubblica erano ben altre. “Nel governo – disse – dobbiamo stare in guardia contro le richieste non giustificate dalla realtà del complesso industriale militare. Esiste e persisterà il pericolo della sua disastrosa influenza progressiva. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo la nostra democrazia. Solo il popolo allertato e informato potrà costringere ad una corretta interazione la gigantesca macchina da guerra militare….in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme”. 

Questo discorso non è entrato nella galleria dei discorsi famosi dei presidenti americani. Questa dimenticanza appare ovvia. Ma è la banalita dell’ovvio che ci fa fa pensare.

 

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