“Pierre Anthon lasciò la scuola il giorno in cui scoprì che non valeva la pena far niente, dato che niente aveva senso. Noi restammo”.

Il tredicenne Pierre Anthon ha un’intuizione nichilista. Percepisce improvvisamente il mondo e la vita umana come privi di senso e sceglie di ritirarsi sui rami di un albero per declamare, come un moderno anacoreta, l’insensatezza dell’essere. I suoi compagni di scuola – siamo in un piccolo centro della provincia danese – provano a confutare le tesi di Pierre Anthon inventando un gioco: a ciascuno di loro, a turno, verrà chiesto di donare al gruppo qualcosa che abbia un significato speciale. Gli oggetti formeranno la “catasta del significato”, ossia un Merzbau (nel corso della storia un grande museo di New York offrirà tre milioni e mezzo di dollari per accaparrarsi la catasta, da qui il richiamo all’opera più famosa di Kurt Schwitters, il Merzbau appunto) da erigere in una vecchia segheria abbandonata. La catasta in principio è formata da oggetti di poco conto: un paio di sandali, una canna da pesca, una bandiera. Ma presto il meccanismo di ritorsione, in un crescendo perverso, spingerà i ragazzi a fare richieste sempre più esorbitanti, finché in cima al cumulo non finiranno la testa di un cane, la bara di un bambino e il dito indice di una mano.

È questa, a grandi linee, la storia di Niente, romanzo di Janne Teller uscito in Danimarca nel 2000 – in Italia è stato tradotto da Marco Mazzilli per Fanucci nel 2004, il titolo di quell’edizione ormai fuori catalogo era L’innocenza di Sofie, e poi da Maria Valeria D’Avino per Feltrinelli nel 2012. Il libro è stato oggetto in Europa di feroci polemiche e censure, al punto da aver fatto registrare il rifiuto alla vendita da parte di alcuni librai. Il motivo deriva dall’essere stato incluso nella più insensata tra le categorie della narrativa, quella cosiddetta “per ragazzi”.
Da qui il malinteso di fondo che impone al lettore di farsi la fatidica domanda: farei leggere questo libro a un figlio adolescente?

In realtà la domanda non ha ragione di essere. O meglio, ce l’ha nella misura in cui ci si pone le stessa domanda per tutte le opere capitali della letteratura mondiale che si sono interrogate sui temi del male e della crudeltà. ‘Niente’ in questo senso è un’opera classica, ma di un classicismo estremo che non ha riscontri immediati nella narrativa europea contemporanea (l’unico scontato rimando è all’opera di William Golding e alla sua visione luterana dell’uomo come creatura soggiogata all’istinto). Lo è poiché affronta il tema sacro dell’esistenza e del suo significato. Un significato – sembra indicare il gioco macabro dei ragazzini – che non è dato in sé, ma che scaturisce da un atto di volontà.

È un libro che muove leve profonde e che turba l’animo del lettore oltre ogni immaginazione, e lo fa attraverso una scrittura cantilenante, piana, asciutta e inesorabile che si somma a un meccanismo narrativo rigoroso capace di amplificare a dismisura l’intensità del racconto. Alcune pagine sembrano sussurrare verità archetipiche che fingiamo di aver dimenticato, cose che riguardano la più indecifrabile ed efferata delle età dell’uomo: l’adolescenza. Se esiste in qualsiasi lettore una specie di istinto di conservazione che preservi dal provare dolore è a una simile qualità che si fa appello leggendo Niente, e quando questo accade vuol dire che siamo in presenza di un grande libro.

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