“Non ho mai tradito la mia giovinezza. Non devo provare la mia innocenza. Sono colpevole d’aver nutrito l’amore e altre deviazioni, come la malinconia, come la nostalgia”. Questa frase, che è un verso di una canzone di Ivano Fossati starebbe perfettamente in bocca a Vittorio “Vic” Vicenti, il protagonista dell’esordio narrativo del cantautore genovese, “Tretrecinque” (Einaudi Editore).

Vittorio è così, è uno che passa dentro la vita rifiutandosi di diventare adulto. In certi passaggi magari fingendo di esserlo, ma scoprendo poi che si trattava di un grande inganno. “La fregatura – dice – è che non si invecchia mai, o meglio si invecchia solo fuori: rughe sulla faccia e mal di schiena. Il cervello non ne vuole sapere”. Vittorio attraversa la sua vita con la valigia e la chitarra Tretrecinque sempre pronte, sfuggendo alle responsabilità, persino a quelle di padre: “I figli”, ammette “hanno bisogno di genitori che stiano con loro più tempo possibile, e che soprattutto siano adulti. Non c’è altra regola. Un musicista di qualunque specie raramente arriva a tanto”.

Fossati ci ha tenuto a precisare in più occasioni che Vittorio Vicenti non è un personaggio autobiografico. Di certo non mente, soprattuto perché Vittorio è un uomo che rinuncia ai propri sogni, non insegue né l’autonomia creativa né il successo, usando la musica come una fonte di sostentamento e di divertimento: “Con una chitarra in mano”, dice Vic in un passaggio del romanzo, “si può scegliere tra la musica che si ama e fare il professionista, cioè suonare quello che piace agli altri. Io avevo scelto la seconda strada e il lavoro l’avevo sempre trovato”. E su questo, non vi è dubbio, nulla di più distante dal suo autore, che invece ha sempre suonato la musica che amava, smettendo di fare il cantante, dopo 40 anni al microfono, forse proprio perché ha percepito, a un certo momento, di essersi avvicinato troppo al modello del “professionista”. Resta il fatto che dentro la vita di Vittorio, raccontata come in un ininterrotto monologo, Fossati ha ovviamente messo tanto di sé, delle sue esperienze, del suo mondo.

E allora, per chi, come il sottoscritto, da almeno vent’anni si fa accompagnare dalle canzoni di Fossati lungo il suo percorso, leggere “Tretrecinque” è come ascoltare una storia raccontata da un caro amico di lunga data e frequentazione. Difficile dire, dettaglio per dettaglio, cosa renda tanto familiare quella narrazione. Sono forse i toni, un certo modo di costruire le frasi, che spesso sembrano dei versi di sue canzoni (“avere coraggio finché c’è tempo/, perché il coraggio prima o poi uno lo trova/ ma quello che conta è il momento/, come per il salto di un tuffatore”). Ma ci sono soprattutto i temi, forse anche le ossessioni di Ivano Fossati scrittore di liriche per canzoni, che ritrovi lì, nelle parole spicce e sempre un po’ disincantate di Vic Vicenti. C’è l’amore, ci sono le donne, la fatica della costruzione dell’amore, il senso di inadeguatezza (“Come se avessi avuto a disposizione nella bocca tutte le parole tranne quelle giuste che mi sarebbero servite”, dice Vittorio, “se l’amore è tutto segni da indovinare, perdona se non ho avuto il tempo di imparare”, dice Ivano, la fine degli amori (“la meraviglia poco a poco scolorisce e poi improvvisamente si rompe”, dice Vic, “io non so nemmeno se ho capito quando t’ho perduta”, dice Ivano. Poi, ovviamente c’è la musica, i musicisti, quel mondo di personaggi inaffidabili e irrequieti, poco responsabili e sempre in fuga da qualcosa, i “per niente facili” de “La musica che gira intorno” (“Erano fatti come me, avevamo accettato insieme di invecchiare ma non di crescere, per questo gli avrei voluto bene per sempre”), c’è il tema del viaggio, che è quasi un’ansia perenne di cambiamento (“Il vecchio istinto di lasciare la valigia sempre pronta in un angolo e comunque di non disfarla mai completamente si faceva sentire di nuovo come la musica dal fondo di un vicolo”, dice Vic, “Abbiamo il cuore con le ruote, che non sai mai come gli va, e tutto quello che ci serve, dopo un milione di città”, dice Ivano).

Ma soprattutto, c’è il tema del tempo, del tempo che passa, che sfugge, che misura, da cui si sfugge e che ci riprende. Un tema che attraversa tutta la discografia di Fossati, gli esempi sarebbero innumerevoli. E che attraversa tutto il romanzo, quel tempo che Vic si rifiuta di affrontare (“Non ci tengo a guardarmi alle spalle, le cose cambiano”, “Del tempo che macina non mi accorgo mai, poi tutto d’un tratto sono vent’anni che hai fatto questo, vent’anni che hai fatto questo”), ma che prima o dopo lo riacciuffa: (“Pensavo che valesse la pena di vivere solo in una specie di corsa perenne, Ora lo so che non esiste una vita così, si può solo prendere i giorni per come vengono e farcisi trovare dentro”). Parole molto simili a quelle che Fossati ha messo nelle note introduttive del libro “finale” della sua carriera di cantautore, “Tutto questo futuro”: “È anche il racconto di come il mio futuro, del quale non mi curavo, sia diventato giorno dopo giorno, viaggio dopo viaggio, incontro dopo incontro, il mio presente e poi sia scivolato in buona parte alle mie spalle. Ma con leggerezza, e si sia lasciato trasformare nella canzone piccola e piena di speranza che dà il titolo a questo libro”. 

 

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