Erano state definite le elezioni della ‘sopravvivenza’ per Recep Tayyip Erdogan, quasi travolto nelle ultime settimane da accuse di corruzione, nepotismo, autoritarismo: ma il ‘sultano’ di Ankara sembra essere sopravvissuto, vincendo con un apparente netto vantaggio secondo i dati ancora parziali diffusi dall’agenzia semi ufficiale Anadolu – contestati dall’opposizione – le amministrative di oggi. Il suo partito islamico Akp, con il 50% delle schede scrutinate, è il primo con il 46,8%, in calo solo di meno di tre punti rispetto allo storico 49,6% conquistato alle politiche del 2011. Il primo partito dell’opposizione, il Chp del socialdemocratico Kemal Kilicdaroglu, che lo ha ribattezzato il ‘dittatore’ e il ‘Primo Ladro’, si fermerebbe al 28%, i nazionalisti del Mhp al 14.6%, i curdi del Bdp al 5%.

A Istanbul e Ankara, le due più grandi città del Paese che l’opposizione sperava di strappare a Erdogan, la situazione dovrebbe essere del tutto chiara solo domani mattina. Nella megalopoli del Bosforo, da dove è partita la parabola politica di Erdogan, che l’ha guidata dal 1994 al 1998, l’uscente Akp Kadir Topbas ha un buon vantaggio nei risultati parziali sul candidato dell’opposizione Mustafa Saigul. Ad Ankara l’islamico Melih Gokcek, il sindaco uscente, e Mansu Yavas, il candidato del Chp, sono testa a testa. Si sorpassano a vicenda con il progredire dello spoglio. Ognuno dei due ha già annunciato di avere vinto. L’europea Smirne, la terza città del Paese, tradizionalmente socialdemocratica, rimane nelle mani dell’opposizione, con la maggior parte della costa dell’Egeo fino ad Antalya e con la Turchia europea; i curdi del Bdp conservano le grandi città del Kurdistan, i nazionalisti del Mhp vincono sul Mar Nero.

In mezzo, in Anatolia, nelle cartine della Turchia al voto, predomina un oceano giallo, il colore dell’Akp. Il premier sembra essere riuscito – se i risultati definitivi domani confermeranno la tendenza – a compattare il suo elettorato storico, musulmano, anatolico, rurale, con una campagna muscolare nella quale ha denunciato un’infinità di “complotti” contro il Paese e contro il suo governo, orchestrati dai ‘traditori’ della confraternita dell’ex alleato Fetullah Gulen, con l’appoggio di lobby finanziarie laiche e di potenze straniere. L’obiettivo del premier era di ‘lavare’ con un successo elettorale le accuse di corruzione. Mantenendosi al potere. Una sconfitta, aveva scritto l’analista Barcin Yinancavrebbe, avrebbe potuto avviare “un processo che poteva perfino farlo finire in carcere”.

Ma l’opposizione, divisa, sembra non essere riuscita a dare al ‘sultanò la spallata finale nonostante il mare di fango che gli si è rovesciato addosso dopo l’esplosione della tangentopoli turca il 17 dicembre, gli arresti dei figli di ministri, i milioni di dollari nascosti nelle scatole delle scarpe degli indagati, le intercettazioni telefoniche finite su internet nelle quali Erdogan ordina al figlio di far sparire milioni di euro nascosti in casa. Il vicepresidente del Chp, Haluk Koc, questa sera ha però avvertito che i risultati definitivi potrebbero riservare sorprese, contestando la “sporca manipolazione” realizzata con la diffusione dei dati parziali questa sera. “Va tutto bene”, ha detto ai militanti, che ha esortato a sorvegliare le urne “fino allo spoglio dell’ultima scheda”. La giornata alle urne è stata macchiata anche dal sangue per scontri tra clan schierati con diversi candidati in aree rurali nelle province di Hatay e Sanliurfa, vicino al confine con la Siria: il bilancio è di otto morti e almeno venti feriti.

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