Dalla metà degli anni Dieci Jonas Netter, ebreo alsaziano trapiantato a Parigi, raduna un’imponente collezione dove, accanto ai più celebri Modigliani, Derain, Soutine e Utrillo, figurano artisti dal talento altrettanto lancinante, come Suzanne Valadon, Pinchus Krémègne, Michel Kikoïne e il magnifico Isaac Antcher. Per Marc Restellini, curatore dell’esposizione, si tratta di un’operazione collaudata: dopo aver portato in mostra il ‘piccolo Louvre’ del dottor Rau al Musée du Luxembourg (nonché la raccolta di Jacqueline Picasso alla Pinacothèque de Paris), l’’opzione’ Netter arricchisce con rigore il campionario dei collezionisti men noti o ignoti che hanno contribuito a istituire il canone obliquo della pittura novecentesca. Oltre a ciò, la retrospettiva romana di Palazzo Cipolla offre uno sferzante spaccato sulla temperie di quegli anni, animata dai ‘dannati’ di Montparnasse.

In combutta col più celebre Zborowski ‒ poeta polacco reinventatosi gallerista, istrionico quanto inaffidabile ‒, Netter ‒ “uomo modesto, onesto, ben educato”, come lo definisce con riconoscenza Antcher ‒ contribuisce in prima persona a sovvenzionare quel manipolo d’artisti squattrinati che, nella caliginosa suburra parigina, non avendo spesso di che campare andavano contagiosamente strascicandosi tra stralunate bohèmes alcoliche, l’inedia e nugoli di pidocchi. Tra le tribolazioni documentate, è la tragedia di Amedeo Modigliani a destare forse più sconcerto. Dopo i postumi di una nottata di bagordi all’addiaccio, l’artista, probabilmente già affetto da meningite tubercolare, si rifugia nel proprio appartamento. Ortiz de Zárate, pittore cileno che abitava nello stesso stabile, lo trova esangue, disteso sul letto mentre l’attornia un degrado di bottiglie vuote e scatolette di alici scassinate. Accanto a lui, rannicchiata sul letto, la moglie Jeanne ‒ diafana, diffidente, esaurita da un dolore muto. Modì morirà quasi subito, dopo un disperato ricovero all’ospedale della Charité, il 24 gennaio del 1920. All’alba del 26, Jeanne Hébuterne si getterà dal quinto piano della casa dei genitori. Appena ventunenne, era incinta del secondo figlio.

È dell’anno precedente un suo struggente dipinto su cartone, Adamo ed Eva, che ricorda il simbolismo umanista di Ferdinand Hodler(lo stesso cui, in tono forse minore, ci riportano i Tre nudi in campagna di Susanne Valadon, madre-Giocasta per Utrillo e lei stessa pregevole pittrice).

Jeanne Hébuterne, Adamo ed Eva, 1919

I due amanti, stretti in un abbraccio trasognato, accarezzano la mela primordiale. Com’è accaduto a Jeanne nella sua breve vita, il peccato unisce e non divide.

Ma fin dalle prime sale è un crescendo di opere ‘estreme’. Impressiona anzitutto Utrillo: non si tratta, com’è stato fatuamente scritto, di un’“attardata maniera vagamente impressionista” ‒ a metterla così, infatti, s’ignora la pasta di quella pittura, il tumulto delle superfici mai davvero appianate dalla spatola, che anzi sfrigolano come scaglie mobili, abrase con veemenza, sui cui margini, quasi fossero placche tettoniche, s’accumulano trucioli cromatici. Lo si vede in Porte Saint-Martin, dove s’intuisce Pissarro, ma aggravato da un’ansia più materica, smagliante e pulsionale, com’è tutta la pittura di Utrillo il quale, innovatore e nient’affatto scapestrato impressionista fuori tempo massimo, per ottenere quegli effetti agglutinanti incorporava nei pigmenti del gesso diluito, talora sabbia, e poi colla e bianco di zinco. Per apprezzarne la modernità, ponete attenzione, se vi capita d’andarci, ad almeno un’altra manciata di dettagli. Anzitutto, il portone in basso a destra di Piazza della chiesa a Montmagny: ripartito in tre grandi campiture (più altre due più piccole), vi s’intravedono le piastre lamellari di De Staël, le stesse che in Rue Muller a Montmartre ricompongono le altane dei palazzi, mentre l’agglomerarsi dei verdi in unica gettata, sulla sinistra, pare emulare (con ovvio anticipo) una tela qualsiasi di Morlotti.

Poco oltre, nel percorso della mostra, c’è un camerino riservato a Maurice de Vlaminck, che compare pacioso in qualche foto. Il suo Veliero nella tempesta, benché offuscato con troppa essenza di petrolio, mi riporta al maelstrom ‘captato’ da Jean Epstein nel suo indimenticato Tempestaire.

Ma è su Isaac Antcher che vale la pena soffermarsi. Nato a Peresecina nel 1899, appartiene alla seconda ondata degli artisti sovvenzionati dal tandem Netter-Zborowski. Come molti ebrei di Bessarabia, ha alle spalle una doppia educazione, avendo frequentato sia la scuola russa che quella talmudica. E difatti i dipinti ne risentono: i suoi boschi sono fantasmagorie funebri, paesaggi avvinti da mistica inquietudine dove incombono alberi fluttuanti. Mi rapisce, nella La valle dei lupi, un cappottino rosso tra il groviglio delle fronde. Poi lo sguardo posa altrove e d’un tratto, come nella campagna chagalliana di Vitebsk, sospese in nostalgica emulsione emergono, visionarie creature, un pastore col cane e le sue pecore.

Chaïm Soutine, Paesaggio di montagna, 1920 circa

Concluderei con Soutine, ebreo di Minsk che raggiunge Parigi a piedi, infestato dai parassiti e gravido di un afrore selvatico che, quasi gli fosse penetrato fin dentro le ossa, si sarebbe portato appresso tutta la vita ‒ o almeno così dicono. Col suo Paesaggio di montagna si è forse al culmine dell’intera mostra: un ‘quasi-Jorn’ dalle possenti trame convettive, dove s’increspa una ressa di colori la cui massa, travolti i contorni degli oggetti, è trattenuta da un ‘tracimare immanente’.

Contrariamente a Platani a Céret ‒ o ai sinuosi Grandi alberi blu ‒, dove nel magma il ‘soggetto’ ancora si distingue, le colate impazzite di Paesaggio di montagna rasentano l’informale puro. Bellissimo anche il ritratto de La pazza che, ‘digrignando’ le nocche delle mani, lo sguardo perso nei recessi dell’insania, si leva dalla propria ombra come spettrale creatura ibseniana.

 

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