È stata una coincidenza. La serata era già organizzata da tempo, nessuno poteva sapere che qualche giorno prima sarebbe esplosa quella nuova bomba mediatica. Il suo volto era su tutti i giornali quella mattina. “Frode aggravata ai danni del comune”. Solo un’accusa per il momento, ma il titolo che tutti avevano in testa era quello. Il suo volto biondo e teutonico era stampato su tutte le prime pagine dei giornali. Ormai non la chiamavano più con l’amichevole nomignolo “Sefi”, come quando era campionessa olimpionica. Era tornata ad essere Josefa Idem, ex-kayakista, ex-campionessa, ex-ministro. Tutti appellativi al passato.

È arrivata all’appuntamento per l’intervista al Caffè Letterario di Ravenna il 21 marzo alle 19 in punto. Né in anticipo, né in ritardo. Da sola. Lanciata a passo veloce, scansando giornalisti come un rugbista quando deve fare meta braccato dagli avversari. L’aria si è fatta subito acida. Sono volate parole pesanti. Josefa pareva una tigre uscita dalla gabbia dopo otto mesi di cattività, otto mesi da quando aveva abbandonato l’incarico da ministro ed ora era di nuovo accerchiata, da accalappiacani con telecamere come fruste. È stata una scena violenta e sgradevole. Lei con l’aspetto imponente, le spalle larghe da campionessa, ma con mani minuscole, parlava con toni secchi e aspri, loro la fissavano aspettando al varco un suo errore per il titolo del giorno seguente. Niente di nuovo infondo. Si ricominciava come nei giorni delle dimissioni. Il copione era già scritto. Le parti ben recitate.

Solo un volto era fuori dall’armonia di danza di telecamere e flash. Il viso sbarbato di un ragazzino seduto in disparte che colpiva lo sguardo come un pugno. La pelle chiara, alto come un uomo ma con lo sguardo ancora innocente di un bambino. Assisteva alla scena in silenzio.

Terminato il numero del circo. I riflettori delle telecamere si sono spenti. La tigre è tornata in gabbia. Lui è rimasto lì e mi si è avvicinato. Abbiamo iniziato a parlare. A parlare di altro, come se non fosse successo nulla di insolito. Mi dice che ha letto dei miei articoli, che fa il liceo classico e mi fa capire che anche a lui piace scrivere storie. Poi mi racconta che si era candidato a rappresentante di istituto e aveva anche vinto, ma poi gli è venuta voglia di lasciar perdere tutto… e gli si spezza la voce. È solo allora che capisco chi è. Preso dal caos lì attorno, non avevo collegato. Capisco che è il figlio della tigre. Lui non è un animale selvatico come la madre però. È solo un ragazzino. I capelli ben pettinati, la maglietta stirata e lo sguardo triste. In corridoio, racconta, i compagni mi hanno gridato che mi dovevo vergognare, che siamo una famiglia di ladri. Ero molto orgoglioso di avere una mamma campionessa olimpionica. Mi sono tanto vergognato.

In quel momento mi sono sentito in colpa. Come se anch’io, in quanto giornalista, avessi armato quegli stupidi insulti da corridoio. Insulti in cui lui, a prescindere dalle colpe o dalle presunte colpe, non aveva niente a che fare.

Nel suo libro Il provinciale, in cui ripercorre la sua vita di cronista nato in provincia, Giorgio Bocca racconta che un giorno a Milano ci fu una rapina in una gioielleria. Mentre i ladri fuggivano in strada il proprietario ne aveva inseguito uno e lo aveva ucciso con un colpo di pistola. Bocca il giorno seguente scrisse un duro articolo in cui accusava quest uomo di essersi fatto giustizia da solo contro un poveraccio che rubava per disperazione. Erano gli anni di piombo. Dopo qualche giorno un commando armato di qualche banda di estremisti infarciti di propaganda sulla lotta armata entrò nella gioielleria e uccise quel uomo. A sangue freddo.  Fu quel giorno, scrive Bocca, che capì quanto peso possono avere le parole e i giudizi. Nessuno dovrebbe arrogarsi il potere di sancire cosa sia morale e cosa no.

Ogni personaggio che entra nella vita pubblica deve essere giudicata per le proprie azioni. La stampa ha il diritto, anzi l’obbligo, di raccontare quello che è in odore di reato e ogni comportamento considerato sospetto. Il limite tra la cronaca e l’accanimento personale però a volte è troppo sottile e non è facile accorgersi quando lo si supera. Finché non si vede un ragazzino con i capelli ben pettinati e la maglietta stirata e lo si guarda dritto negli occhi.

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