Passeggiando a Kreuzberg, quartiere multietnico di Berlino storicamente legato alla presenza di giovani artisti e studenti, ci si imbatte in uno spettacolo inusuale, che qualche turista si ferma sorpreso a fotografare. Un agglomerato di tende occupa Oranienplatz, presidiato costantemente da qualche decina di migranti africani. Davanti al complesso di costruzioni improvvisate c’è un gazebo informativo al cui interno una cassetta raccoglie le offerte dei berlinesi solidali alla causa. C’è anche chi aiuta portando del riso, coperte o indumenti: “Fino a qualche settimana fa qui c’era la neve, faceva molto freddo”, spiega il ragazzo che raccoglie le donazioni.

Sono circa 300 i profughi che stanno abitando da quasi un anno Oranienplatz. La maggior parte di loro proviene dalla Libia ed è passata attraverso Lampedusa. Vogliono ottenere il permesso di soggiorno e di lavoro in Germania, divenendo così “regolari”, per poter ricostruire la loro vita. Ma i loro desideri sono costretti a scontrarsi con la chiusura politica della Germania, paese in cui il 78% delle domande di richiesta asilo viene respinta. Per molti di loro l’inizio dei problemi è coinciso con l’intervento della Nato in Libia: “Prima che l’Europa ci bombardasse non avevo mai pensato di emigrare, lavoravo per un’azienda francese e stavo bene”, racconta il trentasettenne Issa.

La sua vita da profugo è iniziata nel 2011, con lo scoppio delle rivolte contro Muammar Gheddafi e l’intervento decisivo della Nato. Sbarcato a Lampedusa, Issa è stato spedito nel Cie di Milano nel quale è rimasto per alcuni mesi. Dopo numerose traversie è arrivato infine a Berlino, dove i suoi problemi sono tutt’altro che risolti: “Sono da tre anni in Europa e non ho ancora il diritto di lavorare: com’è possibile?”.

Nel 2013 i profughi sbarcati via mare in Italia sono stati 42.925, di cui 14.753 sono approdati a Lampedusa. Di questi, più della metà (27.314) sono partiti dalle coste libiche. Un numero destinato a non diminuire, complice la situazione di guerra civile che sta ancora oggi vivendo la Libia, dove gli attacchi a militari e obiettivi occidentali si verificano quotidianamente: l’ultimo attentato, l’esplosione di un’autobomba, risale al 17 marzo e ha provocato la morte di almeno cinque soldati. 

La méta degli sbarchi è l’Italia, ma il Belpaese per molti rappresenta solamente la prima tappa del viaggio alla ricerca di lavoro e condizioni di vita più dignitose. Una terra di passaggio, da cui diventa però difficile separarsi a causa della legislazione europea: il “regolamento di Dublino” prevede infatti che il rifugiato debba richiedere lo status di perseguitato politico nel primo Paese in cui viene identificato. E, nei tempi lunghi per ottenere una risposta, non gli è consentito spostarsi.

“Una volta che l’Italia ti ha preso in ‘carico’ si potrà finire nel Cara dove, teoricamente, l’accoglienza è disposta per il tempo necessario all’esame della domanda di asilo politico”, testimonia Marco Barone, avvocato ed esperto sui diritti dei migranti. Il lasso di tempo di permanenza nel Cara non dovrebbe superare i 35 giorni, ma può accadere che i tempi per avere una risposta si allunghino a dismisura, anche oltre i sei mesi: “se dopo sei mesi dalla presentazione della domanda di protezione internazionale non è ancora stata presa una decisione sul caso, il richiedente avrà diritto a ricevere un permesso di soggiorno che avrà validità di ulteriori sei mesi e che gli consentirà di lavorare regolarmente fino a che la decisione non verrà presa”. Ma, nell’attesa di ricevere questa risposta definitiva, il richiedente asilo politico “non potrà lasciare l’Italia, perché se si spostasse in un altro Paese europeo rischierebbe di soggiornare irregolarmente, nonostante abbia avviato la procedura di asilo”, conclude Marco Barone.

Se il regolamento europeo permette che si finisca in simili impasse, la politica tedesca – pressata dalla “scomoda” presenza dei profughi a Oranienplatz – si sta muovendo per cercare di arginare il problema. Tra i richiedenti asilo trenta hanno assistito, lo scorso ottobre, ai lavori parlamentari che dovrebbero portare a una soluzione legislativa del problema dell’integrazione dei rifugiati: un accesso più facile al mondo del lavoro, l’organizzazione di corsi di lingua tedesca, la semplificazione e la riduzione dei tempi della procedura per ottenere asilo. Ma la disillusione, fra di loro, è molta: “Per ora solo tante promesse e pochi fatti”, rispondono con una sola voce, parlando una lingua che oscilla fra tedesco e italiano.

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