Fa piacere, ogni tanto, dover rendere conto dell’evoluzione positiva di una storia che si è raccontata qualche tempo prima. Nello scorso autunno ho scritto, per il Fatto Quotidiano del Lunedì, una storia molto italiana. Quella della miniera di Cogne, a 2.500 metri di altitudine, dove da 34 anni non si scavava nemmeno un grammo di ferro e che, però, era formalmente ancora in attività. La storia di circa 8 milioni di denaro pubblico spesi per tenere in attività un sito che rischiava, con la dismissione, di essere definitivamente sprecati. Avevo raccontato delle potenzialità di sfruttamento turistico di un sito minerario collocato “in paradiso”, di una comunità che desiderava non spezzare il filo della memoria del suo passato operaio.

In questi giorni, grazie ai puntuali resoconti del profilo twitter del Comune di Cogne, corredati di splendide fotografie, ho appreso che finalmente il percorso verso il recupero del sito e la sua trasformazione in museo minerario è cominciato. Il passaggio di consegne tra Fintecna (la società pubblica detentrice della concessione) e il Comune di Cogne sta avvenendo. Questo significa che la comunità, che è legata a quel posto così come si può essere legati a chi ti ha tirato fuori dalla miseria e ti ha reso una valle dalla quale i giovani non sono dovuti emigrare, torna a essere proprietaria di quel luogo e di tutte le memorie che conserva.

Ora inizia un percorso altrettanto difficile. Perché trasformare quell’enorme complesso fatto di gallerie, impianti di trasformazione, teleferiche e piani inclinati, trenini che si inoltrano nella montagna, terrazze con vista su una corona mozzafiato di montagne non sarà facile. E richiederà lungimiranza e massicci investimenti. C’è chi, a Cogne, si batte da anni per questo obiettivo e si dice convinto che per un progetto del genere possano arrivare facilmente i Fondi europei.

Sembra quindi che finalmente Cogne vada ad aggiungersi a tanti altri luoghi d’Italia che hanno fatto del loro passato minerario un volàno di sviluppo turistico. Molti degli oltre 3mila siti minerari che punteggiavano il Paese (tutti definitivamente cessati) sono diventati parchi minerari. Luoghi in cui gli elementi naturali e quelli prodotti dalla mano dell’uomo si sono mescolati e hanno dato vita ad un ambiente unico e suggestivo, portando a nuova vita secoli di storia.

Dopo che nel 2004 i siti minerari sono stati inseriti tra tra i beni culturali da tutelare nel Codice del paesaggio, in Italia è possibile muoversi sulle tracce dei minatori lungo quasi tutto lo Stivale, in un ideale itinerario della memoria. A cominciare dal parco minerario della Sardegna, il primo al mondo riconosciuto dall’Unesco, passando per quelli dell’Isola d’Elba e dell’Amiata Colline Metallifere Grossetane in Toscana, per quella di Gambatesa in provincia di Genova, per quelli in quota in Alto Adige o in Valle d’Aosta e concludendo con le zolfatare di pirandelliana memoria in Sicilia.

Con una sorprendente risposta positiva del pubblico: entrare nel buio delle gallerie, magari guidati da un ex minatore, è un’esperienza affascinante, che fa toccare con mano la durezza del lavoro, ma anche la forza dei legami si creavano dentro e fuori i pozzi. Da giacimenti di minerale, molti di questi luoghi hanno saputo trasformarsi in giacimenti di memoria, ma anche in motori di sviluppo (sostenibile) locale. In zone che spesso hanno vissuto traumatici processi di deindustrializzazione, i musei minerari portano posti di lavoro. E la capacità di coinvolgere intere comunità in un progetto comune.

Adesso c’è da augurarsi che questo circolo virtuoso si attivi anche lassù, a 2500 metri, nella miniera “in paradiso” e che nelle gallerie, dopo tanto ferro, si riscopra un giacimento altrettanto prezioso: quello della memoria.

Foto di Valeria Allevi

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