Ho riflettuto a lungo prima di postare questo commento, visto che nei prossimi giorni andrò a vedere il film su Enrico Berlinguer e probabilmente mi commuoverò; per cui (presumo che) da quel momento sarò in uno stato d’animo diverso dall’attuale. Eppure, mentre imperversa il coro delle anime belle che sento cantare dopo ampie libagioni a base di melassa, non riesco (per ora) a far tacere quello spirito critico (bastian contrario?) che mi rende inviso a larga parte dei visitatori di questo sito. Come quando provo a demistificare l’iconografia esageratamente encomiastica attorno a due miei concittadini scomparsi (don Gallo e Fabrizio de André), secondo una regola irrinunciabile per noi genovesi: “denaro e santità, metà della metà”.

Berlinguer era persona per molti versi ammirevole; ma come politico è risultato a consuntivo un elaboratore di strategie sconfittiste, che hanno finito per fare il gioco del campo avverso. Buona ultima la mossa di aprire il sacrosanto contenzioso sulla questione morale in maniera improvvisata (con tutta l’ala migliorista, Napolitano in testa, a boicottarlo sottotraccia). Più di un piano di intervento, il segno della disperazione per il fallimento dell’Eurocomunismo, mentre si consolidava il patto di potere tra cinici – Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani – destinato a marginalizzarlo; e che diede vita all’orrido CAF spartitorio: il primo saccheggio del patrimonio pubblico mediante speculazione sul debito dello Stato (BOT e CCT), favorito per comprarsi consensi di fette della società italiana (che con Silvio Berlusconi diventeranno “neoborghesia cafona”), a fronte di inopinati arricchimenti speculativi. Battaglia in cui il leader comunista risultò sconfitto.

Ma in palio non c’era in gioco solo un successo personale. Si trattava della direttrice di marcia del Paese, e Berlinguer restò drammaticamente al di sotto dell’occorrenza. Così come perdente si era rivelata la grande operazione a cui è legato il suo nome: il Compromesso Storico. Ossia una strategia difensiva proprio mentre la Sinistra era in fase ascensionale. Quando buona parte del fronte progressista in Italia attendeva una scelta di stampo mitterandiano: l’alternativa alla Democrazia Cristiana. Tema su cui Berlinguer, probabilmente influenzato dall’ecumenismo del suo entourage cattocomunista (in particolare il suo segretario/consigliere Antonio Tatò), non intendeva sentir ragione. Difatti è sua la frase rinunciataria “non si governa con il 51 per cento”. Mentre in democrazia si governa col 51 per cento. E comunque è compito della leadership politica creare le condizioni perché questo possa realizzarsi. Fare sì che l’Italia non sia il Cile di Salvador Allende e del fellone Augusto Pinochet.

Insomma, una parabola politica segnata da fallimenti che hanno lasciato campo al peggio del peggio. Resta il rimpianto di una persona assolutamente per bene, in una fauna di personaggi estremamente “per male”; tipi e tipacci che trionfando hanno contaminato ed infettato nel profondo l’anima nazionale. Tanto che ora non si sa dove sbattere la testa, ci si rivolge a comunicatori vendifumo scambiandoli per simulacri di grandi leader in assenza di una classe dirigente degna di tale nome.

Gente che avrebbe dovuto essere messa da parte e che non lo fu in quanto il loro oppositore si perdeva in prediche (rivelatesi inutili) su fantomatici incontri con i cattolici e in rimpianti (pasoliniani) del tempo delle lucciole. Per di più zavorrato da pesi ereditari di non poca entità, su cui gli avversari avevano buon gioco a battere.

Perché Berlinguer certamente ha il coraggio di andare a Mosca e dire qualcosa in netta controtendenza. Ma il taglio del PCI con “l’oro di Mosca” avviene solo alla caduta dell’Unione Sovietica. Tanto per dire, ancora all’inizio degli anni ‘90, in una media città come Genova, il Partito Comunista si poteva pagare una struttura di novanta funzionari, più personale amministrativo vario. Solo autofinanziamento?

 

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