Fu Livorno, più o meno. Sicuramente anno 2004. Premio Ciampi. Enzo pretese una bottiglia di Jack Daniel’s nel camerino, e se ne fece fuori la metà. Salì sul palco e in quel teatro, chissà dove è finito, mi pare si chiami H&M e venda mutande, fece la versione più struggente che abbia mai ascolta di Vincenzina (e la fabbrica).

Enzo Jannacci, un anno dopo. Un anno dopo aver salutato tutti, ringraziato ed esser partito per chissà quale destinazione, a fare il cardiochirurgo in paradiso o continuare a raccontare i disgraziati all’inferno, a perdersi le parole per strada, fare discorsi sconnessi nei quali scovavi quasi sempre il sale di questa vita. C’è un vuoto incolmabile in tutto questo. Ricordo l’ora, i minuti e quel maledetto sms, perché i telefoni non ti dicono mai di aver vinto la lotteria, ma ti annunciato sempre disgrazie o debiti: “E’ morto Jannacci”. Il mittente del mio sms è Anna Viola, figlia di Beppe che se ne andò in una domenica del 1982, dopo un Inter-Napoli di ottobre. “Ero piccola, ma sentivo Enzo dalla sala che piangeva. Capii che era successo qualcosa di grave a papà”.

Piangeva Enzo Jannacci, piangeva e sorrideva, cercava di strappare a chi lo ascoltava un sorriso e una lacrima. “Grande intellettuale, il più grande in questi tempi sgualciti”, diceva Dario Fo. Lui, Enzo, non ci credeva. Era semplicemente Jannacci, uno che non avrebbe mai fatto il verso a nessuno, sarebbe stato solo Jannacci Vincenzo. Non poteva accodarsi né essere imitato. Ci provò Mina, anno 1977, a cantarlo. Ma lei stessa, la signora della musica, non fu per niente soddisfatta da quel disco. “Voce troppo americana, troppo pulita, non dovevo cantarlo cosi”. Probabilmente è anche vero. Probabilmente è impossibile prendere la canzone di un altro e farla propria. Con Enzo forse c’è riuscita una volta sola Mia Martini, cantò dentro al castello Sforzesco Io e te, e quello che ne venne fuori resta in qualche video e nella memoria di chi c’era. Fatela suonare, e’ l’emozione di un verso di Sant’Agostino, “ama e fa ciò che vuoi”. Amali tutti, senza prezzo né etichetta, uomini, donne, bambini, anziani, animali. Barboni, appunto. Quelli coi cartoni e le scarpe del tennis.

Ascoltarlo sempre, comprenderlo mai. Perché Enzo era fatto così. Non aveva nessuna voglia di spiegarsi alla prima. “Quando ho iniziato sembravo una gallina stropicciata”, diceva. “Emettevo degli strani suoni incomprensibili. Ora, a settanta suonati, canto meglio”. Non era vero. “Ho iniziato a fare il cantautore perché nessuno voleva cantare i pezzi che scrivevo”. Bugia, Enzo. Avevi la fila fuori. Ti scelse Mina, la più grande di tutti. “Ho imparato l’inglese a New York in una scuola serale portoricana”. Non ci crediamo, l’inglese lo sai e lo parlavi benissimo. Lavoravi a New York in Emergency, al pronto soccorso, figuriamoci se potevi permettere di non capire i neri e gli irlandesi che spiegavano i sintomi di un’appendicite. Tornasti in Italia per fare il direttore artistico del Derby, via Monte Rosa. Solo Jannacci poteva fare una cosa del genere: “Ma sì, mi avevano stufato gli americani”.

Ci fu Livorno. Qualche anno prima Firenze, e prima ancora Milano, al castello. Sono tre tappe importanti per la vita di questo scribacchino da due lire tronfio di nostalgia. Volevo dirlo a te e a chi legge. Me le porto appresso più di ogni altro momento, ma rischieremmo di cadere nella retorica, rischierei di andare sul personale, quello mio, di cui non frega niente a nessuno. Sicuramente tutti noi non ti abbiamo dimenticato. Anche se dicevi che alla fine “sono solo canzonette”. E spero di non averti neanche maltrattato come ha fatto Fabio Fazio nel cantare un tuo pezzo all’Ariston. Perché Jannacci va ascoltato. Punto e basta. Non bisogna né cercare di capirlo. Tantomeno può essere imitato. Non sarebbe stato Jannacci Enzo, nato a Milano il 3 giugno 1935. 

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