Finalmente arriva anche un organismo internazionale di alto livello, l’ Fmi (Fondo Monetario Internazionale), retto attualmente dalla francese Christine Lagarde, a dire quello che già da tempo diversi illuminati economisti dicono (Krugman, Cowen, Bartlett, ecc.) e cioè che nella situazione attuale non c’è più tempo da perdere, occorre agire subito per fermare una tendenza deflazionistica che porterebbe inevitabilmente l’intera Europa nel vicolo cieco di una lunga stagnazione.

A condurre in modo impeccabile, con l’ausilio di esaurienti grafici, l’analisi della situazione e il grave rischio che ne consegue, ci pensano tre capaci economisti del Fmi (Reza Moghadam, Ranjit Teja, e Pelin Berkmen) nello studio pubblicato recentemente sul blog del Fmi.

L’analisi si conduce essenzialmente nel lavoro condotto per dare risposta a questi fondamentali quesiti: 1 – in Europa si è già in fase di “deflazione”?; 2 – se non è deflazione, qual è il problema?; 3 – quale lezione ci ha dato l’esperienza giapponese?

Io per brevità commenterò solo i punti salienti, ma a chi fosse interessato ad approfondire consiglio vivamente la lettura completa dello studio (link sopra). Al primo quesito i tre studiosi rispondono innanzitutto con la definizione che il presidente della Bce Mario Draghi dà della deflazione: “Una situazione dove la flessione sui prezzi coinvolge un significativo numero di nazioni (europee); coinvolge un significativo numero di merci e si verifica in modo spontaneo”. (Una definizione molto tecnica che potrebbe anche andar bene se l’Europa fosse davvero una federazione di Stati e non soltanto una bozza di federazione tenuta insieme da regole pretenziose e da una moneta che non tutti hanno sottoscritto, che favoriscono troppo qualcuno e penalizzano troppo qualcun altro.)

I tre cominciano quindi ad esaminare quanti e quali paesi sono colpiti maggiormente dal persistente fenomeno della bassa inflazione e, soprattutto, a verificare se qualcuno di questi è già tecnicamente in fase di deflazione, ovvero con una crescita dei prezzi negativa.

Questa analisi rileva che, per quanto l’inflazione sia molto bassa (0,8 per cento in febbraio) tecnicamente non si può ancora parlare di “deflazione”.

Vero, non si può ancora, ma la dinamica che si è instaurata aumenterebbe l’attuale tendenza a far scivolare nella deflazione vera e propria alcuni Stati dell’Unione e arriverebbe presto a contagiare anche altre economie, con tutte le gravi conseguenze che ciò comporterebbe. In primis si aggraverebbe la già elevata disoccupazione, che potrebbe protrarsi per lunghissimi anni e poi ci sarebbero tutte le problematiche legate al campo imprenditoriale, anch’esso fortemente penalizzato da una inflazione negativa e da una ulteriore stretta del credito.

Un aspetto interessante dell’analisi è quello (punto II problem 2) dove viene confermato che in un sistema come quello europeo, gravato da deflazione (o bassa inflazione), i pochi vantaggi che arrivano dalla bassa o negativa inflazione vanno a premiare i paesi meno indebitati, quindi con un effetto doppiamente negativo per i paesi che si sono trovati in crisi a causa dell’elevato debito e delle politiche di austerità imposte dal sistema centrale proprio per costringere le diverse economie a livellarsi con i paesi “virtuosi” riducendo il proprio debito.

Lo studio poi si produce nella dimostrazione del gravissimo rischio di cadere nella trappola della deflazione, mostrando come il Giappone (che pure non ha mai avuto la palla al piede di una moneta unica squilibrata come l’euro) sia caduto in quella trappola vent’anni fa e non sia ancor riuscito a venirne fuori completamente. Solo da circa un anno, avviando una politica fortemente espansiva e accantonando per il momento ogni programma di rigore il Giappone è ritornato ad una moderata crescita economica (1,6 per cento nel 2013), ancora insufficiente a rilanciare in pieno la propria economia “addormentata” da un ventennio di stagnazione, ma in linea con quella americana e almeno doppia a quella europea.

In conclusione gli economisti del Fmi evidenziano che l’eccessivamente bassa (o negativa) inflazione favorisce soltanto i risparmiatori puri (titoli di Stato, obbligazioni, ecc.), ma deprime ogni sforzo che i paesi fortemente indebitati fanno per ridurre il debito e la disoccupazione. Quindi raccomandano alla Banca Centrale Europea di avviare politiche tendenti a ribaltare l’attuale tendenza ribassista del tasso di inflazione, ben lontano da quel 2 per cento cui sarebbe statutariamente tenuta a mantenere. Sarebbe perciò opportuna in tempi brevi una ulteriore riduzione del tasso di riferimento e in contemporanea l’avvio di politiche di “Quantitative Easing” (acquisto di debito privato e pubblico degli Stati europei).

E’ noto che alcuni Stati europei (con in testa la Germania) si oppongano fortemente a quest’ultima linea d’intervento, ma dopo questa “raccomandazione” da parte del Fondo Monetario Internazionale e dopo le forti pressioni di alcuni governi (tra cui Francia e Italia), ci si augura che l’ossessiva e ormai del tutto inopportuna politica di contenimento dell’inflazione da parte della Bce venga finalmente accantonata per dare spazio a politiche espansive che garantirebbero un ritorno ad una reale e sostanziale crescita economica.

Questo avvertimento dell’ Fmi è da ultima spiaggia, l’errore di fare contemporaneamente moderate politiche di ripresa insieme a politiche di rigore è già stato fatto dal Giappone. Ignorarlo significherebbe spingere l’Europa nell’inferno di una nuova recessione cui seguirebbe inevitabilmente un lungo dolorosissimo periodo di stagnazione.

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