Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa ‘giocare’ con la vita e il dolore altrui.

Era il settembre del 2006 quando Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare fin da adolescente e ridotto negli ultimi anni a dover stare immobile su un letto attaccato a un respiratore artificiale, decise di scrivere una lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per chiedere per sé e per tanti altri malati nelle stesse condizioni la fine di un’esistenza disumana che nulla più aveva a che vedere con la vita attraverso l’eutanasia. Di quella lettera bellissima, sincera, accorata, mi colpì in particolare una frase, quella in cui Piergiorgio definiva il suo corpo “squadernato” davanti a medici, assistenti, parenti.

Un corpo squadernato fu esattamente quello che vidi quando dopo qualche giorno andai a casa sua per intervistarlo. Attraverso quell’aggettivo aveva descritto perfettamente l’immagine plastica della sofferenza e dell’impotenza che lo legavano ad un letto e che lo rendevano ormai incapace di concentrarsi su qualsiasi cosa fuorché sul modo, possibilmente legale, di porre fine a quell’agonia.

Nell’appello rivolto a Napolitano, Piergiorgio descriveva la sua giornata che iniziava con l’allarme del ventilatore polmonare e proseguiva tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare, impossibilità di stare seduto, di compiere qualsiasi movimento. Piergiorgio sentiva in ogni momento della giornata una stanchezza mortale che gli impediva persino di scrivere al computer, di navigare, leggere, incontrare gli amici su internet, attività che aveva compiuto fino a qualche mese prima.

Quando giunsi presso la sua abitazione a Roma trovai sull’uscio un disegno che ritraeva una coppia di giovani sposi e una scritta: “Chiuso per luna di miele. Torniamo tra un mese. Piergiorgio e Mina”. Era un ricordo del viaggio di nozze che i coniugi Welby avevano deciso di lasciare affisso sulla porta di ingresso della loro casa ora trasformata in un reparto di ospedale con il letto speciale, il materasso antidecubito e le macchine artificiali.

Ebbi subito l’occasione di conoscere Mina, una persona deliziosa, dolcissima e discreta nel contenere la sua tristezza e la sua preoccupazione ma ferma e convinta nell’aiutare il suo amatissimo Piergiorgio a realizzare quello che desiderava.

Mina sedeva al capezzale di Piergiorgio serena e rassicurante e, a ogni mia domanda, traduceva le sue risposte interpretando il movimento delle labbra del marito. Credo di non aver mai incontrato un uomo così innamorato della vita e così disperatamente consapevole di cosa significhi doversene staccare. Era fermamente convinto di voler porre fine ai suoi giorni proprio perché riteneva che la sua fosse una non- vita e non lo addolorava la scelta di abbandonare Mina perché l’amore di lei, come mi disse, lo avrebbe accompagnato anche in quell’ultimo viaggio. Ricordo che non aveva perso nemmeno l’ironia e infatti quando gli chiesi se credeva in Dio lui mi rispose: “Io credo in tante cose, anche nei giornalisti.” Parlammo di Eschilo, che lui aveva citato nella lettera a Napolitano, della sua passione per la letteratura, di religione, di disobbedienza civile, della vita, della morte.

Piergiorgio si è spento il 20 dicembre 2006 grazie a un medico anestesista che ha accettato di aiutarlo a morire, si è autodenunciato e in seguito è stato prosciolto dall’accusa di omicidio del consenziente. Ma Piergiorgio non sarebbe felice di sapere che, otto anni dopo, in Italia non è cambiato nulla, che il suo appello è caduto nel vuoto e che la sua storia come quella di Luca Coscioni e di Eluana Englaro non ha ancora scosso abbastanza le nostre coscienze e soprattutto quelle dei parlamentari che, a tutt’oggi, non hanno provveduto a fare una legge chiara e inequivocabile sul testamento biologico. L’autodeterminazione del paziente, peraltro sancita dalla nostra Costituzione, viene aggirata ogni qualvolta i partiti, per non scontentare questa o quella parte, abbozzano tentativi di legiferare in materia ed escludono alimentazione ed idratazione forzata dal concetto di “accanimento terapeutico” impedendo di fatto la libera scelta del cittadino.

La battaglia di Piergiorgio Welby sta continuando attraverso le 70 mila firme di cittadini italiani che chiedono la legalizzazione dell’eutanasia e una legge sul testamento biologico e i politici non possono continuare ad ignorarla, si tratta di una battaglia di civiltà portata avanti in uno stato che, fino a prova contraria, è laico e non confessionale.

Per quanto riguarda la Chiesa, ho aperto questo post con il nome di un pontefice, quello di Benedetto XVI citato da Welby nella sua lettera aperta. Vorrei chiuderlo con l’appello ad un altro pontefice sebbene siamo tutti coscienti che ottenere un’apertura su un argomento del genere sia quasi impossibile. Mi piacerebbe però che papa Francesco ripensasse alle ultime ore del Cardinale Martini contrario all’accanimento terapeutico e potesse udire le parole di Mina Welby quando dice “mettiamoci nei panni di un malato terminale, non si tratta di omicidio legalizzato ma di andare incontro a una persona che chiede di porre fine a una sofferenza inaudita. Il buon Dio conosce la sincerità e le difficoltà degli uomini ed essendo venuto per calpestare il suolo credo che ora sia vicino alla nostra battaglia.”

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