Ha fatturato 27 miliardi di dollari, ma ha pagato al fisco australiano solo 176 milioni. Lo 0,7%. Una magia perfettamente legale firmata Apple, che è riuscita a trasferire in Irlanda 8,9 miliardi di utili realizzati in Oceania negli ultimi dieci anni. Un’inchiesta dell’Australian Financial Review, il più autorevole quotidiano economico del continente, ha svelato l’intricata ragnatela di strategie utilizzate dal gigante statunitense dell’hi-tech per trasferire off shore i suoi utili e sottrarli alla tassazione locale. Il segreto? Apple Sales International, compagnia della galassia di Cupertino con sede a Cork, in Irlanda, che sulla carta ha il compito di tutelare la proprietà intellettuale dei suoi prodotti in tutto il globo e in cui confluiscono tutti gli introiti che la società sottrae al fisco dei paesi in cui produce e vende. E i miliardi che sfuggono all’erario australiano – e qui sta il capolavoro – non vengono tassati né in Irlanda, né negli Usa né altrove.

Il Financial Review ha ottenuto e analizzato i conti finanziari di Apple Sales tra il 2002 e il 2013: solo negli ultimi 5 anni, la compagnia ha contabilizzato ricavi per cento miliardi di dollari e ha versato al fisco meno di 50 centesimi ogni mille dollari entrati nelle sue casse. Funziona così: tutte le divisioni Apple sparse per il globo sono tenute a versare sotto forma di copyright ad Apple Sale una parte dei profitti delle vendite effettuate. Così il braccio australiano di Cupertino, Apple Pty Ltd, prima di pagare le imposte, paga una fee ad Apple Sales per le proprietà intellettuali, consentendo così di presentare al fisco australiano profitti molto più bassi e di abbattere le tasse.

Nel caso analizzato dal Financial Review, tra il 2010 e il 2013 la divisione australiana ha dichiarato alla Australian Securities and Investments Commission, omologa della nostra Consob, vendite per un totale di 20 miliardi di dollari e un utile ante imposte di 387 milioni. Nello stesso periodo, secondo il quotidiano, ha girato circa 7,2 miliardi di profitti esentasse ad Apple Sales International. Nel 2012 i miliardi inviati in Irlanda erano stati 2,3. Lo scorso anno sono stati due. Il totale, in dieci anni, è di 8,9 miliardi. Su questi miliardi, Apple Sales International non paga tasse: “La compagnia non ha residenza fiscale in alcuna giurisdizione”, si legge in una comunicazione inviata nel 2009 alla Australian Securities and Investments Commission. Non le paga, quindi, in Irlanda dove, in base alla legge, sono tassate solo le società gestite e dirette sul territorio. Non le versa neanche in California, dove Apple ha la sede operativa, perché il fisco americano vuole soldi solo dalle compagnie che negli Usa hanno stabilito la loro sede legale. Né, ovviamente, le paga altrove.

Il mese scorso il governo irlandese è intervenuto per eliminare questa scappatoia fiscale, ma la nuova legge permetterà ancora alla compagnia di stabilire la propria residenza fiscale dovunque voglia: alle Bermuda, per esempio, paradiso fiscale dove le corporate non pagano imposte, o Singapore. Con cui Apple ha stretto un vantaggiosissimo accordo già nel 2009 e dove versa il 5% invece del 17%. Tanto che, a quanto risulta al Financial Review, i due miliardi inviati nel 2013 Apple in Irlanda sono passati con una vantaggiosissima triangolazione proprio dalla Lion City: grazie a questa operazione Cupertino ha dichiarato al fisco australiano guadagni per soli 88,5 milioni.

Così fan tutte: Apple, Google, Microsoft, Facebook, Amazon utilizzano, con qualche variante, tutte lo stesse stratagemma. Miliardi e miliardi sottratti ogni anno ai sistemi fiscali dei maggiori paesi occidentali. Il Financial Times ha calcolato che nel 2012 le prime sette web company attive nel Regno Unito hanno pagato soli 54 milioni di tasse su un totale di ricavi di oltre 15 miliardi. In Francia nel 2011 Google, Microsoft, Apple, Facebook e Amazon hanno versato all’erario 37,5 milioni: se avessero avuto il regime fiscale delle altre aziende dell’Ue, ne avrebbero pagati più di 800. E ora gli Stati, alle prese con le ristrettezze causate dalla crisi globale, cominciano a pensare alle contromisure: dall’Ue all’India, da Israele agli Stati Uniti è iniziato il dibattito per neutralizzare le agevolazioni fiscali selvagge di cui godono le corporate hi-tech.

In Italia (dove a novembre la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta sulla gestione contabile di Apple, che avrebbe sottratto al fisco un miliardo e 60 milioni di euro) l’esecutivo tenta da mesi di far passare la cosiddetta Google Tax – primo firmatario Francesco Boccia, deputato del Pd – che per costringere i giganti del web a rendere conto al Fisco italiano, prevede l’obbligo per chi acquista spazi pubblicitari online di farlo solo da soggetti dotati di partita Iva italiana. Incluso a più riprese in vari provvedimenti e puntualmente espunto, ora il testo ha rifatto capolino nella cosiddetta delega fiscale. Ma gli Stati dell’Ue da soli possono poco e lo hanno capito: la vera partita si giocherà presto a Bruxelles.

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