Molte cose rendono Hong Kong una città speciale. La natura, che pochi da lontano collegano alla giungla di grattacieli da cartolina, la semplicità con cui ci si può muovere con i mezzi pubblici, la sicurezza, l’efficienza, la voglia di trasformare idee in realtà. Certo, Hong Kong è anche luogo di contraddizioni, schiacciata tra un passato coloniale e un presente da regione cinese a statuto speciale. È una realtà in cui convivono a pochi metri l’uno dall’altra lusso e povertà, situazioni abitative estreme e il mercato immobiliare più caro al mondo. Ma se c’è qualcosa a Hong Kong che non ha un lato B è la libertà di stampa: un diritto per cui la città con il Foreign Correspondents’ Club più grande e importante al mondo si batte, soprattutto ultimamente, con forza e determinazione.

They can’t kill us all“, non ci possono uccidere tutti. Questo lo slogan ripetuto da tredicimila tra giornalisti, studenti e abitanti di Hong Kong che hanno partecipato qualche giorno fa alla manifestazione indetta dalla Press Coalition Against Violence, associazione locale che include la Hong Kong Journalist Association e il Foreign Correspondents’ Club. Una manifestazione enorme, che ha quasi stupito per compattezza e resistenza, sfilando attraverso Wan Chai fino al quartier generale del Governo di Hong Kong e della polizia. Senza mai perdere il controllo, senza incidenti, con le forze dell’ordine defilate e caute nel sorvegliare da lontano una massa di persone che rappresentavano tutta la società civile ma soprattutto lo spettro politico più ampio, compresa l’ala dei partiti storicamente pro Pechino. Hong Kong è Cina, ormai, da 17 anni, ma “la forza di questa città sta nei suoi abitanti, nella capacità che ancora hanno di protestare, di farsi sentire, di non accettare passivamente imposizioni e provocazioni, da qualunque parte provengano”, mi spiega Padre Franco Mella, missionario italiano del Pime che si batte per i diritti civili a Hong Kong dagli anni ’70.

La vicenda che ha scatenato la protesta risale allo scorso 26 febbraio quando Kevin Lau, l’ex direttore del quotidiano locale Ming Pao, uno dei più letti a Hong Kong, è stato accoltellato alla schiena. Usciva dal suo ristorante preferito, poco dopo colazione, come tutti i giorni, nel quartiere popolare di Sai Wan ho. Un motorino gli si è avvicinato, a bordo due uomini, quello che stava dietro lo ha colpito due volte lasciandolo steso a terra, in una pozza di sangue. Lui stesso ha chiamato la polizia usando il suo telefono: “Sono stato accoltellato, venitemi a prendere” e nel giro di pochi minuti un’ambulanza lo ha trasportato d’urgenza all’ospedale di Wan Chai, dove la scorsa settimana ha potuto lasciare il reparto di terapia intensiva grazie a un forte miglioramento delle condizioni.

Aggressioni di questo tipo a Hong Kong sono rare. È una città ipercontrollata e l’agguato a Lau, per motivi statistici ma soprattutto perché Lau è considerato un giornalista influente e molto seguito, è stato immediatamente letto in un’ottica di intimidazione alla libertà di stampa. Lau era stato sostituito da poco, dagli inizi di gennaio. La sua redazione, 250 giornalisti, aveva da subito protestato unita contro questa decisione dell’editore. Alla manifestazione, insieme ai suoi colleghi, c’era anche il nuovo direttore e tutti i colleghi delle testate concorrenti. Dal suo letto di ospedale ha mandato un messaggio ai manifestanti: “Quando mi sono svegliato dall’operazione chirurgica ho rivisto davanti a me un manifesto che tenevo appeso nella mia camera da studente, all’Università di Hong Kong. Diceva: “Una penna in mano per raccontare la verità, senza paura. Perché la libertà non ha paura e non concede favori”.

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