Naturalmente non ci riferiamo alle gloriose imbarcazioni che solcavano gli oceani cariche di merci e di… migranti, ma agli accordi Transatlantic Trade Investment Partnership tra Europa e Stati Uniti per agevolare gli scambi commerciali tra i due continenti. Accordi che sono cominciati nel luglio del 2013 e che sono ora arrivati al quarto “round” (si terrà dal 10 al 14 marzo a Bruxelles) senza aver fatto grandi progressi.

Però il Commissario Europeo Karel De Gutch, reduce dall’incontro col contendente americano, ambasciatore Michael Froman, dispensa (come di regola) ottimismo, facendo risaltare i pochi progressi registrati.

Questi accordi tra i due maggiori colossi mondiali del commercio dovrebbero consentire di raggiungere sostanziali riduzioni tariffarie nelle reciproche importazioni di prodotti agricoli e industriali. Risparmi che, secondo stime indipendenti, dovrebbero raggiungere per l’Europa la quota di circa 120 miliardi di euro l’anno, mentre per gli Usa sarebbero di 90 miliardi di euro. Ma ne trarrebbero beneficio anche le economie terze, per un importo di circa 100 miliardi di euro l’anno.

I promotori del Ttip ci tengono però a mettere in rilievo anche altri benefici, non solo tariffari, che ne deriverebbero dall’entrata in funzione dell’accordo, e cioè una maggiore uniformità nelle regole, una maggiore trasparenza delle transazioni commerciali e la possibilità, per gli operatori europei, di agire direttamente negli Usa senza dover transitare da agenzie americane.

Tra gli obbiettivi enunciati ci sarebbe anche il reciproco rispetto dei diritti sociali e dell’ambiente, la tutela dei marchi d’origine, ecc.

Parallelamente agli accordi per il Ttip procedono anche gli analoghi accordi tra gli Usa e i Paesi del Pacifico, che infatti si chiamano Tpp (Trans Pacific Partnership). Gli obbiettivi sono più o meno gli stessi del Ttip, e i soggetti sono (oltre agli Usa) il Canada, il Messico, il Cile, il Perù, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone, la Malesia, il Vietnam, il Sud Corea, Singapore e il Brunei.

C’e quindi in atto, da parte dell’amministrazione Obama, una azione a larghissimo raggio per proseguire ulteriormente nell’opera di globalizzazione (e “normalizzazione” sugli standard americani) delle economie. Che però non tutti, nemmeno negli Usa vedono con favore. Anzi, qualcuno (come ad esempio il Nobel Krugman) è persino esplicitamente scettico sui reali benefici di questi accordi e e dice senza indugio che preferirebbe vederli affondare del tutto.

È vero, dice Krugman, che in passato accordi di questo tipo hanno consentito all’economia americana di crescere fino a diventare l’economia numero uno al mondo, ma erano tempi in cui vigevano dappertutto forti barriere commerciali, per non parlare del blocco sovietico. Oggi le economie sviluppate sono già tutte molto aperte, con pochissime barriere commerciali, quindi questi accordi inciderebbero poco sul piano economico ma molto sui “brevetti”, sui marchi e altri diritti similari, rendendoli però più invalicabili, non più flessibili. Quindi a guadagnarci sarebbero ancora una volta le grandi imprese, che con questi accordi raggiungerebbero una situazione protetta di quasi monopolio a livello globale.

Non deve sorprendere perciò se persino negli Usa i Ttip e Tpp sono impantanati ad ogni livello politico e istituzionale. I democratici in particolare non vogliono commettere lo stesso errore fatto negli anni ’90 (con Clinton) quando, per dimostrare che si erano evoluti al primato assoluto del libero mercato, hanno dato via libera a tutte le liberalizzazioni e deregolamentazioni legislative, spalancando la porta alla globalizzazione e a tutti gli eccessi della finanza “creativa” di cui oggi quasi tutti i popoli occidentali stanno sopportando le dolorosissime conseguenze.

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