Sul Parlamento di Simferopoli, capitale della repubblica federata e autonoma di Crimea, non sventola più la bandiera ucraina. Un gruppo armato di circa 50 persone ha fatto irruzione e ha issato a fianco del vessillo locale quello russo. Poco dopo il deposto presidente Viktor Fedorovich Yanukovich – che è riapparso e terrà una conferenza a Rostov, in Russia, il 28 febbraio – ha fatto sapere di considerarsi ancora in carica e di essere certo che il sud dell’Ucraina e Vladimir Putin non accetteranno il nuovo governo di Kiev. Si dice “determinato a combattere fino alla fine” per l’attuazione dell’accordo che ha firmato la scorsa settimana nella capitale ucraina con i leader dei tre partiti dell’opposizione. Non è tardata la replica di Anders Rasmussen, segretario generale della Nato, che ha esortato i russi a non intervenire militarmente.

In realtà, Mosca non ha bisogno di farlo, perché è già presente nella penisola del mar Nero con la sua flotta (a Sebastopoli) e con alcune caserme lungo il Chersoneso. Il 60% della popolazione è russa. Il 15% circa tartara e solo il rimanente ucraina. Dopo la seconda guerra mondiale Stalin deportò l’80% dei tartari, la popolazione originaria della zona, secondo il “principio” che se erano vivi erano stati collaborazionisti dei tedeschi. Finirono in Siberia. E furono sostituiti da forza lavoro russa che nella maggior parte dei casi si trovò a gioire. Violenza a parte, passarono da zone inospitali a “un paradiso” climatico. Senza contare i benefici economici che ebbero dagli espropri. Oggi continuano a vedere la Russia come riferimento e l’Europa per loro non esiste.

Non a caso le tracce di Yanukovich prima della “riapparizione” a Rostov portavano a Balaklava. Città famosa per l’ultima battaglia della cavalleria italiana, ma soprattutto nel secolo scorso sede dei sottomarini nucleari dell’Urss. Più semplicemente l’ex presidente vi teneva ormeggiato il suo yacht. Ciò che conta in queste ore è che il gruppo armato che ha assalito il Parlamento – per poi invitare i deputati a riunirsi e votare per la secessione – potrebbe anche essere composto da para militari russi. Non a caso non hanno mai parlato. Solo esposto cartelli e quando sono stati avvicinati dai giornalisti hanno lanciato granate stordenti. Il loro compito potrebbe essere quello di accendere la miccia del conflitto civile e della separazione territoriale. Almeno fino a che l’Europa non finirà con l’accettare una mediazione su chi debba detenere il poter a Kiev.

Nel 1992 appena dopo la caduta dell’Urss la repubblica di Crimea fu per un breve periodo totalmente indipendente (era stata donata all’Ucraina da Krusciov in occasione del trecentesimo anniversario della unione fra Russia e Ucraina) per poi accettare di rientrare nella federazione Ucraina. In cambio di autonomia e una serie di concessioni a Mosca. Che non avrebbe mai accettato di mollare il presidio sul mare Nero con la delega sull’intero Mediterraneo. Nel 2008 in piena discussione sulla possibilità di fare entrare Kiev nella Nato (sotto pressione della Ue) Simferopoli, Sebastopoli e Yalta (le principali città) erano tappezzate di cartelli con la scritta: “Abbasso la Nato”. E per fortuna non è avvenuto. Immaginate una presenza di carri armati di Mosca tra le strade di Simferopoli e il nuovo governo di Kiev che chiede l’intervento armato dell’Unione Europea? Meglio nemmeno prendere in considerazione l’eventualità.

Sperando che comunque e in ogni caso la tensione armata si fermi prima di qualunque scoppio, resta da far emergere le vere motivazioni della guerra civile. In un recente report della Banca Mondiale, tra i co-autori anche l’italiano Donato De Rosa, dal titolo “Diversfied Development”, si analizza la capacità di alcune nazioni dell’Eurasia, Ucraina compresa, di sganciare l’economia dalle materie prime e di creare un sistema meno volatile. Dopo il crollo dell’Urss c’è stata una riconversione forzata al mercato che ha spinto il piede sull’acceleratore di gas e petrolio, ma che non ha permesso la creazione di economie stabili basate su un giusto equilibrio di manifatturiero e tecnologia. Con il risultato che negli ultimi anni la produttività è calata. Fino a prima della crisi economica il bilanciamento è avvenuto grazie all’export verso l’Europa.

Adesso tutto sta cambiando. E l’Ucraina si trova a un bivio. O entra nell’area di libero scambio con l’Ue. O aderisce all’unione doganale russa. Nel secondo caso le stime, quanto riferisce la Banca Mondiale, parlano di un crollo delle importazioni dall’Ovest compreso tra il 76 e l’83 per cento. Compensate per di più dai benefici della assenza di dazi su gas e tutto ciò che arriva da Mosca. L’export subirebbe una crescita inversa. Se l’Ucraina aderisse al mercato Ue l’export salirebbe del 10% se si legasse invece a quello russo solo del 4%.

Nessuno dei due blocchi può però immaginare di perdere un mercato importante come quello ucraino e immaginare Kiev con un piede di qua e uno di là sembra non più possibile. Senza dimenticare che lungo la nazione ci sono le chiavi delle principali pipeline usate dall’Europa (finché non ci sarà il South Stream). Una Kiev solo russa ci esporrebbe ancora di più ai voleri di Mosca che potrebbe far chiudere a terzi i rubinetti dell’energia, senza per forza dichiararci “guerra”.

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