Javier Cercas è uno scrittore che ha ininterrottamente riflettuto sul suo mestiere. Tanto che le sue opere possono considerarsi romanzi sull’avventura di scrivere romanzi (rubando la definizione al titolo del bel libro intervista di Bruno Arpaia). Il personaggio Javier Cercas, infatti, entra nella narrazione e ne diventa punto focale: la sua ricerca della storia, nelle forme del reportage o del saggio storico, permette al lettore di condividere con lo scrittore il piacere di raccontare, di cercare risposte, di trovare coincidenze. Una fluida sensazione di verità. Pier Paolo Pasolini, interpretando Giotto nel Decameron, si chiedeva: perché fare un’opera, quando è tanto più bello immaginarla? Cercas gioca costantemente su questi due piani, mentre sulla pagina immagina l’opera, la costruisce. Chi meglio di lui quindi per parlare del coinvolgimento dell’io autoriale nella narrazione? Cercas accetta il tema e ne parla appassionatamente.

Molti studenti dei corsi di scrittura creativa vorrebbero inserirsi nella narrazione. È evidente che è un gioco meravigliosamente romanzesco, ma oltre al piacere di condividere col lettore il processo creativo, da dove nasce l’idea di inserire lei stesso come personaggio nella narrazione?
Bisogna partire dicendo in via preliminare che tutta la fiction è autofiction, tutta la fiction è autobiografica. Lo scrittore usa la sua vita, i suoi sogni, le sue letture, le sue passioni per fare diventare il particolare universale. Ma esistono diverse strategie attraverso le quali si può usare la propria figura e queste diverse strategie dipendono dal libro che si sta scrivendo. In Soldati di Salamina, per esempio, il protagonista si chiama come me. Allora possiamo dire che sono io? No, non sono io: è una maschera che mi permette di dire quello che voglio dire. Ma attenzione, la maschera per i Greci era la persona stessa. E la maschera è ciò ci nasconde e ciò che ci rivela. Faccio un esempio: se indosso una maschera da pirata, questa nasconde il mio vero volto, ma allo stesso modo rivela degli aspetti di me. Nel romanzo, il protagonista Javier Cercas dice che sta scrivendo una cronaca reale, ma non è vero anche se tutti i personaggi sono veri e il protagonista sembra vero, perché la letteratura è scrivere una finzione più vera della realtà, che permette al lettore di scoprire una verità a cui non si arriva attraverso l’esperienza o il giornalismo o lo studio storico: una verità morale.

Ma non crede che forse è proprio questa domanda morale che sta alla base di tutti i suoi libri a esigere la presenza dell’io autoriale nel testo? Cioè, le domande che pone sono talmente sue che sente la necessità di mettersi gioco anche personalmente…
Credo che abbia colto un aspetto vero. In Soldati di Salamina e in Anatomia di un istante mi pongo delle domande morali che riguardano altre persone: perché, durante la Guerra civile spagnola, Miralles non ha sparato al fascista Mazas; perché durante il tentato colpo di stato del 1981, tre persone in tutto il parlamento spagnolo sono rimaste in piedi sfidando le pallottole? Queste domande però sono anche molto personali, e si riverberano su me stesso e sul lettore. Le domande romanzesche sono sempre domande morali. Perché gli uomini hanno fatto quello che hanno fatto. Cos’è il coraggio? Cosa la codardia?

Un’altra questione che spesso salta fuori nei corsi di scrittura creativa, è quella che riguarda la comprensione del male. Uno scrittore poco esperto tende a dividere in modo manicheo bene e male. Mi ha molto colpito una sua frase ne L’avventura di scrivere romanzi. La dice quasi con il pudore di dover dire una cosa così ovvia: capire è il contrario di giustificare.
Hanna Arendt diceva che il primo dovere è capire: dobbiamo capire, capire tutto e soprattutto capire il male. Lo dobbiamo fare per avere gli strumenti per combatterlo. Ho molto pensato sopra una frase di primo Levi che parlando di Auschwitz diceva che forse non si doveva capire perché capire è quasi giustificare. Ho trovato la risposta leggendo Todorov: la vittima non deve capire il persecutore perché se lo capisse si autodistruggerebbe. Ma gli altri, chi non è vittima, hanno il dovere di capire il male perché non si ripeta più. Cosa fanno Shakespeare o Dostoevskij? Ci permettono di capire gli psicopatici, gli assassini, i deviati. Tracciano una mappa della natura umana. Ricordo una polemica che è nata all’uscita del film La caduta, che raccontava gli ultimi giorni di Hitler nel bunker e presentava il dittatore in modo anche umano. È proprio questo il problema, che Hitler era umano. Se fosse stato un extraterrestre non ci sarebbe problema.

Altra domanda ricorrente del praticante scrittore: la letteratura mi salverà? Narrare mi farà del bene? In La velocità della luce la strategia dell’autofiction è ancora diversa. Mette in scena uno scrittore che si trova alle prese con la gestione del suo successo letterario, che inesorabilmente lo distrugge. Lei non è stato traviato dal successo e ha detto di aver scritto questo romanzo proprio per salvarsi.
Quel romanzo è stato un esorcismo, e la letteratura può anche essere una forma di esorcismo. Nei romanzi lo scrittore fa uno striptease al rovescio. Appare nudo, e poi piano piano si copre. Ma il nudo è l’origine di tutto. Metto nei miei libri ciò di cui ho paura, i miei incubi. Ne La velocità della luce questo processo è molto evidente.

In Anatomia di un istante siamo di fronte a una autofiction ancora diversa. In questo caso, mi pare, il Javier Cercas del romanzo è molto, molto vicino al Javier Cercas reale…
In Anatomia di un istante racconto me stesso. Sono io. Mio padre muore veramente e io racconto il mio vero rapporto con lui. È un romanzo senza fiction. E ho fatto questa scelta per una ragione molto semplice: il colpo di stato del 1981, come la morte di Kennedy, è stato raccontato in mille modi diversi, con una grandissima dose di finzione e fantasia. Fare fiction su un soggetto così mitizzato sarebbe stato ridondante e quindi io non potevo fare altro che raccontarne la realtà. In sostanza, tutto dipende dal soggetto e da come si affronta la materia del romanzo, ogni libro è come un gioco che deve trovare le sue regole e le regole di ogni libro devono essere diverse.

Nelle Leggi della frontiera infatti ritorna alla pura fiction, anche se ci sono molti aspetti che riconducono il romanzo a elementi biografici come la Gerona della sua infanzia e giovinezza, e la criminalità giovanile che la infestava.
È vero, sono ritornato alla libertà assoluta della fiction. Lavorare con i fatti reali come per Anatomia di un istante è un lavoro duro. Avevo bisogno di tornare alla magnifica libertà di inventare ed è stata una grande felicità. E in questo momento, sto facendo il percorso inverso: nella lotta tra fiction e non fiction, sto tornando a una letteratura senza finzione perché ho una storia che era diventata una ossessione e avevo bisogno di raccontarla facendo parlare la realtà.

Gli errori che uno scrittore non dovrebbe mai commettere secondo Javier Cercas 
– Non abbiate fretta di pubblicare
– Paul Valery diceva: il vero scrittore si riconosce prima per ciò che butta che per ciò che pubblica. Quindi, abbiate il coraggio di buttare molto di ciò che avete scritto
– Non scrivete per i critici letterari!

(Foto Lapresse)

Il Fatto Quotidiano, Lunedì 16 dicembre 2013

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