Su twitter circolano cinguettii sul Festival di Sanremo, sul tacco della Casta, sulla protesta degli operai campani. All’improvviso e in penombra sbuca una notizia sulla morte di Mavis Gallant. Io, poiché alla morte non riesco proprio a crederci, non ci credo. Allora la rileggo sul New York Times. E sì, è proprio morta, a 91 anni, il 18 Febbraio, a Parigi. In giro non ci sono notizie, nessuno che ne parli – se non dall’estero – nessuna citazione virgolettata, nessuna corsa a commemorarne opere e virtù. Per un attimo resto turbata dall’assenza di questa morte, che così ignorata potrebbe anche essere finta. Poi, provo una specie di sollievo, confortata dal fatto che, a volte, una cosa tanto intima possa essere sospesa per qualche attimo se non per qualche giorno, che si possa aspettare prima di scattare l’ultima foto sul corpo ancora tiepido.

‘I racconti sanno aspettare’ diceva sempre lei. E lei di racconti ne ha scritti moltissimi, più di 140 pubblicati sul New Yorker, l’unica vera patria che ospita short stories. In Italia, alcuni ma pochi, li pubblica Rizzoli tradotti da Giovanna Scocchera. Nata a Montreal nel 1922, la Gallant ha scritto sin da bambina e sin da ragazzina ha letto – in inglese: la lingua che le ha insegnato il suono della scrittura. Per lei lingua e memoria sono un incrocio ineluttabile, l’intelaiatura da cui ha origine e foce ogni storia. Cresciuta come giornalista per un giornale locale durante la guerra, è stata una delle donne scrittrici che si è sentita dire: sei qui perché siamo a corto di maschi. Ma cocciuta e dedita alla parola scritta, ha lavorato per anni al Montreal Standard aspettando, componendo didascalie per fotografie. Un lavoro che le permette, da un lato, di specializzarsi nella puntigliosa precisione che sarà poi il suo marchio di fabbrica; dall’altro, di comprendere che la sua scrittura necessitava di una prateria più ampia in cui raccontare delle vere e proprie storie. É allora, intorno agli anni ’50, che approda al New Yorker e i suoi racconti faranno il giro del mondo.

La natura stessa della scrittrice è nomade: viaggiatrice curiosa, si trasferisce a Parigi dove comporrà altre short stories, tra cui Home Truths che nel 1981 ottiene il Governor General’s Award. Nella sua vita, individuo e scrittura si sovrappongono, perché è così che per lei le storie prendono forma: da un intricato mistero che confonde memoria e invenzione. I suoi racconti parlano di persone spesso colte, poliglotte, non viaggiatori ma esistenze sempre in transito, sospese tra un adesso e un dopo che la Gallant coglie con la lucidità appuntita della parola. Storie di perpetuo sradicamento, in cui gli aspetti più paradossali della vita, crudeli ma anche ironici, vengono raccontati con l’illuminazione di una sola immagine o in poche righe: Forse quel silenzioso andirivieni era il modo in cui le persone potevano conservare un posto nella vita altrui anche quando erano lontane.

Fu Mordecai Richler a dire che i suoi racconti non sono mai colpevoli di una frase non indispensabile. Il racconto, infatti, è l’unico posto in cui la Gallant pare sia riuscita a stabilirsi con agio, trovando lì il sollievo di una vera casa in cui insediarsi. La short story era per lei una scelta: la forma e il luogo in cui lo scrittore deve conservare per tutta la storia una tensione specifica, in cui una parola in più o una in meno rischia di far crollare l’impalcatura, di rompere le attese. Questa attesa, questo talento del saper aspettare, fino alla fine, la Gallant l’ha lasciata in eredità anche alle sue storie, e quindi a noi. Cerchiamole, pretendiamole, invochiamole.

Mavis Gallant nelo 1981, foto Lapresse 

 

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