Uno dei più grandi fraintendimenti della società italiana – almeno negli ultimi quaranta o cinquant’anni, dopo il boom dei cantautori, dell’art-rock e del prog, quindi – è il Festival di Sanremo o, meglio, quello che dal Festival di Sanremo ci si aspetta.

Sanremo è pop, un genere preciso, come il reggae; nella fattispecie è pop italiano; ancora più in profondità è uno dei più antichi e quindi resistenti sottogeneri di pop nella storia della popular music.

A mio modestissimo parere è anche maledettamente migliore dell’indie. Comunque, paragonare Dente a Toto Cutugno è semplicemente un errore filogenetico, «un gioco di quei tanti che fa la vita», come direbbe il poeta. Preferire Dente a Toto Cutugno, poi, è manifesta mancanza di buongusto. Ma questa è un’altra storia.

Conviene, forse, affrontare la cosa con ordine, con l’indice dei nomi.

Quella che segue è una guida per gli utenti del Festival televisivo, per chi ha sottile gusto dell’orrido e il telecomando guasto.

Pif: è lui la cosa più bella del Festival di Sanremo fino ad adesso.  Non è mai banale ed è semplice. E poi si è finalmente accorto del dramma di Gianfranco Agus.

Francesco Renga: io le canzoni di Renga non le capisco, cioè mi perdo proprio verso la metà e non riesco a capire che cavolo significhino. La cosa mi preoccupa, non poco.

A questo punto subentra la sindrome di Sanremo, che puntualmente arriva in una sera di febbraio. Dopo una discreta e rinfrescante attesa di qualche giorno, nel bel mezzo della seconda serata pensi: lo sento, mi sto annoiando e non è nemmeno ora dei bellissimi di Rete4. Certo che Giuliano Palma aiuta, però.

Noemi: detto in tutta sincerità – consapevole che la fenomenologia sia cosa ben più affidabile dell’esperienza percettiva di un piccolo e modestissimo abitante di questa sfera schiacciata ai poli che comunemente chiamiamo “pianeta Terra”- non credo che Noemi esista.

Francesco Rubino: la seconda di Rubino è bella bella bella. Punto. Dici: vincerà la critica e se le pecore s’accodano può vincere anche tutto il cucuzzaro. Poi puntualmente passa l’altra. Cioè, è ovvio. Lo dicevo all’inizio: è un errore filogenetico aspettarsi artisticità di un certo tipo (e forse tout court). Come se a briscola punti a fare carte e denari.

Franca Valeri: no Fazio, ‘ste cose no.

Ron: non c’è nessuno in Italia che – quando vuole – sa essere così delicatamente, elegantemente e teneramente sciapo come Ron.

Claudio Baglioni: la differenza tra Cat Stevens e Claudio Baglioni è che il primo va lì, canta una canzone e viene giù il teatro; il secondo va lì e gli viene il fiatone per cantare le canzoni più famose che ha, terrorizzato dal fatto di poter fungere da pausa toilette per il gentile pubblico. A Cla’ il medley no, te prego. Ansia da prestazione.

Riccardo Sinigallia: per fortuna è passata la prima di Sinigallia, perché gli fa più gioco, è più gradevole e per adesso a lui serve più visibilità possibile, più spazio mediatico di manovra per dimostrare che è bravo. Daje.

Francesco Sarcina:.

Rufus Wainwright, poi pensi: come mai noi esportiamo solo la Pausini in Sud America? Mumble. Mumble? Contro provincialismo e qualunquismo, Nanni Moretti diceva in Ecce bombo: «Te lo meriti Alberto Sordi». Tant’è.

Giovani: il loro livello sembra valere quattro volte quello dei big. Ma Bianca riequilibra la situazione. La sfiga è che Zibba, Diodato e Graziani siano capitati nella stessa serata.

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