La protesta
Una settimana fa e per una paio di giorni ci sono stati scontri tra polizia e manifestanti in Bosnia Erzegovina. Tutto è partito con le proteste degli operai il 5 febbraio a Tuzla (120 mila abitanti), polo dell’industria pesante, principalmente per da tre diversi fattori:

1- Fallimento delle privatizzazioni delle industrie Konjuh (mobili), Polihem (chimica), Dita (detersivi) e Resod-Gumig (prodotti di gomma), che garantivano la fonte di reddito per la città e per tutto il cantone di Tuzla;

2- L’assenza, da più di un anno, dello stipendio (25 euro al mese), dell’assicurazione sanitaria e con 14 anni alle spalle senza un solo giorno di contributi versati;

3- Un tasso di disoccupazione al 28% che raggiunge il 60% tra i giovani dai 15 ai 24 anni.

In pochi giorni la protesta si è allargata a tutto il paese e i manifestanti hanno reagito attaccando le sedi dei governi locali a Tuzla, Sarajevo, Zenica e Mostar. Il bilancio finale è di quasi duecento feriti  (la polizia, oltre ai soliti gas lacrimogeni, ha sparato proiettili di gomma e granate assordanti) e decine di arresti. A Sarajevo è stato inoltre appiccato il fuoco al palazzo della presidenza bosniaca ed è andato distrutto parte l’archivio statale che conteneva materiale del periodo austroungarico, atti della commissione sui crimini di guerra del Secondo conflitto mondiale e memorie personali risalenti alla fine dell’Ottocento. L’archivio era uscito finora indenne da due guerre mondiali e dalla guerra civile degli anni Novanta.

Le manifestazioni hanno però raggiunto il loro obiettivo, e cioè far dimettere il premier dei cantoni di Tuzla, Zenica, Mostar e Sarajevo, ma non solo. Le richieste sono state ben chiare fin da subito: creazione di un governo tecnico composto da membri esperti e non compromessi, copertura contributiva e assicurazione sanitaria ai lavoratori, revisione delle privatizzazioni, parificazione delle indennità dei rappresentanti delle autorità ai salari dei lavoratori del settore pubblico e privato, eliminazione dei benefici aggiuntivi per i rappresentanti delle autorità ed eliminazione delle indennità a ministri

La questione nazionalista

Sui muri di Tuzla, nei primi giorni delle proteste, gli operai hanno scritto “Dimissioni! Morte al nazionalismo!”. Quello che i lavoratori di Tuzla hanno reso evidente è che è necessario superare le barriere etniche e religiose per creare un movimento che possa soddisfare i bisogni di tutti. Questo è avvenuto a Tuzla anche perché è stata l’unica città della Bosnia, negli ultimi 25 anni, a mantenere un sindaco non-nazionalista (socialdemocratico SDP).

Nel frattempo, però, ci sono state due mosse diplomatiche di una certa rilevanza portate avanti dalla Serbia e dalla Croazia, entrambe effettuate nell’ottica di egemonizzare e incanalare gli scontri nella comodità dell’immobilismo nazionalista. Domenica 9 febbraio il vice premier serbo, Aleksandar Vučić, si è incontrato con il presidente della Republika Srpska (RS) Milorad Dodik, per discutere gli sviluppi della crisi in Bosnia Erzegovina. Pochi giorni dopo a Bijeljina (114 mila abitanti), sempre in Republika Srpska, in risposta alle manifestazioni che avvenivano nella Federazione, vi sono state contro manifestazioni di sostegno al governo nelle quali i contro-manifestanti neggiavano a Ratko Mladić.
La mossa della Croazia invece è stata affidata al primo ministro Zoran Milanović, che si è recato a Mostar, dichiarando di voler calmare la situazione.
Fortunatamente fino ad oggi nessuno ha ritenuto appetibili le mosse politiche di Serbia e Croazia. E già questa è una notizia importante.

Affinità e divergenze tra le proteste italiane e quelle bosniache

Per molti motivi ci sono svariati punti in comune tra la proteste dei forconi, alcune posizioni del M5S e le manifestazioni bosniache, e cioè un attacco generico e generalizzato al potere e ai suoi privilegi, la richiesta di un nuovo welfare (nel caso bosniaco la richiesta è di avercelo, il welfare) e, da un punto di vista comunicativo e logistico, l’assenza di simbolismi politici riconducibili alle grandi ideologie del passato, lo stampo populista e l’assenza di organizzazione. La differenza tra Italia e Bosnia è che appunto in quest’ultima tutto è partito dalla fabbriche grazie anche a un sindacato che fa quello che deve fare, e cioè portare avanti le rivendicazioni dei lavoratori.

Il dato fondamentale, a mio avviso, è che sia emersa la volontà di autodeterminarsi senza connotazioni nazionalistiche e su questo punto indubbiamente le potreste italiane hanno da imparare molto. Il fatto che si è solidali al di là della provenienza etnica è un fattore estremamente positivo che arricchisce il movimento e i contenuti della lotta. Sta nascendo qualche cosa di buono in Bosnia, osserviamolo attentamente, perché se impediranno ai vari politici arraffoni e opportunisti di egemonizzare la protesta con il loro becero nazionalismo o con iniezioni di appartenenza etnico religiosa, c’è il caso che la Bosnia diventi un bellissimo esempio di nuovo laboratorio politico. Non ci resta che aspettare i risultati dei primi Pelunm cittadini di questa settimana con un occhio particolare a Sarajevo. In questi giorni infatti a Tuzla hanno già ottenuto alcuni risultati, tra cui l’assicurazione sanitaria per gli ex lavoratori delle industrie pubbliche privatizzate e fallite.

Fonti:
Osservatorio Balcani e Caucaso: http://www.balcanicaucaso.org/
East Journal: http://www.eastjournal.net

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