Tre anni dopo la rivolta che ebbe come epilogo la sua caduta e la sua uccisione, il popolo libico si ritrova governato dalle leggi di Muammar Gheddafi.

L’ultima mossa delle autorità della “nuova” Libia è stata quella di emendare, il 5 febbraio, l’articolo 195 del codice penale, che ora considera reato penale l’insulto allo stato, ai suoi simboli, ai suoi rappresentanti politici, di governo e della magistratura nonché alla bandiera e prevede pene da tre a 15 anni di carcere. Cambiano le parole (all’epoca era reato l’insulto alla Grande rivoluzione al Fateh e al suo leader) ma non la sostanza.

Insomma, chi tre anni fa era sceso in strada per chiedere maggiore libertà, si ritrova nelle maglie di un regime autoritario che fa copia e incolla delle leggi del passato. La “rivoluzione del 17 febbraio” del 2011 eredita dalla “rivoluzione” di Gheddafi lo stesso principio-guida: l’espressione delle opinioni è limitata e alcuni argomenti sono tabù.

La dichiarazione costituzionale adottata in tutta fretta nell’agosto 2011 dal governo transitorio, in cui si prometteva il rispetto del diritto alla libertà d’espressione, è rimasta lettera dunque morta.

A gennaio, inoltre, è entrato in vigore un decreto che punisce gli studenti e i funzionari di stato all’estero – privandoli di titoli di studio, salari e vari benefici – che siano ritenuti coinvolti in “attività ostili alla rivoluzione del 17 febbraio”. Le ambasciate sono state istruite a fornire i nomi dei soggetti “ostili” alla procura generale per l’avvio dei relativi procedimenti.

L’obiettivo di quest’ultimo provvedimento pare evidente: vendicarsi contro coloro che espressero pubblicamente la loro opposizione alla rivolta del 2011 e presero parte a manifestazioni e proteste pro-Gheddafi.

I mezzi d’informazione non se la passano meglio. Nelle ultime settimane, le autorità libiche hanno messo al bando le emittenti televisive satellitari che trasmettono punti di vista ritenuti “ostili alla rivoluzione del 17 febbraio”, che hanno l’intento di destabilizzare il paese o di creare “discordia tra i libici”.

Gli attacchi contro i giornalisti indipendenti, persino da parte dei loro colleghi allineati alla “rivoluzione del 17 febbraio” proseguono senza sosta, tra minacce, sequestri e omicidi.

Nel 2013, sono stati uccisi due giornalisti: Ezzedine Kousad, presentatore della tv al-Hurra, a Bengasi nel mese di agosto; e Radwan al-Gharyani, direttore di Tripoli FM, a dicembre nella capitale. 

Il 6 febbraio di quest’anno, sconosciuti hanno assaltato gli uffici di Libya al-Ahrar e di Libya Awwalan,due emittenti televisive locali di Bengasi.

L’11 febbraio a Tripoli la sede della tv al-Assema è stata attaccata a colpi di granata. Sei giorni prima, Mohamed al-Sureet, direttore della sede di Bengasi era stato sequestrato per 10 ore.

Intanto, va avanti il processo contro Amara al-Khattabi, il 67enne direttore del quotidiano libico Umma che aveva osato pubblicare una lista di 84 giudici sospettati di essere corrotti. Rischia fino a 15 anni di carcere, grazie alle leggi di Gheddafi sopravvissute al loro promulgatore.

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