Colloquio con la maestra di Luca. Mi guarda con un sorriso largo. Poi con accento altoatesino e l’aria di chi è felice di portare una buona notizia mi dice: “Tefo tirle ke Luca è proprio un pampino – il tono mi fa già pregustare l’orgoglio che scivola per le vene… – normale”. Impietrisco. Vorrei quasi chiederle come si permette! Poi passo alla giustificazione linguistica: forse la diversa sensibilità lessicale… Ma cos’è che mi urta tanto di questo giudizio sulla mia adorata creatura? Non posso certo dire che sia negativo… però…

Sarà che ho la sensazione che molti genitori, guardando i propri figli, abbiano pensato almeno per un attimo che fossero, se non dei genietti, per lo meno dotati in qualcosa. Mi scopro pensieri che stupiscono prima di tutto me stessa. Cosa spero per i miei figli? Vorrei essere madre di gente normale o madre orgogliosa di poeti o geni, ancorché depressi, squilibrati o infelici come solo gli spiriti magni sanno essere? Certo, si potrebbe aspirare ad avere tutto. O pensare al peggio: al figlio non proprio brillante e nemmeno tanto in bolla…

Eppure mi stupisce come mi risulti difficile riconoscere che qualche iato tra le nostre aspettative e il loro bene esista, eccome. Desiderare il bene, la felicità per le persone che amiamo a volte significa spogliarsi di tutto quello che vorremmo da loro. Di tutto quello che da loro possiamo sperare per noi. Un atto di amore puro, però, sarebbe non desiderare da loro altro che il loro benessere. Anche a costo di accettare la parola più temuta in un mondo popolato da supereroi… la normalità, appunto. Saluto la maestra, ritornando in me con un sorriso. Nella mente mi risuonano le note del grande Lucio Dalla: “Ma una cosa eccezionale, dammi retta, è essere normale paraparà paraparà…”.

di M. Valeria Valerio

Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 10 febbraio 2014

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