A rischio di andare controcorrente, nella ricostruzione dell’affaire Quirinale-Monti-Friedman non è il ruolo del Colle a stupire di più. Che un presidente faccia delle chiacchierate, delle consultazioni, o che disegni scenari politici non è così sorprendente. E va ricordato che nell’estate del 2011, pur di cacciare Berlusconi dalla guida del governo, milioni di italiani avrebbero accettato anche la mediazione di Toro Seduto, di Landrù o del Settimo Cavalleggeri.

Quello che più offende (anche se non stupisce più di tanto) è la trafila che il signor Monti fece per atterrare teleguidato a Palazzo Chigi. Una cenetta con un grande finanziere a Sankt Moritz (De Benedetti), poi un documento economico scritto da un grande banchiere privato (Passera) che sarebbe poi diventato ministro. Diciamo che la prematura scomparsa di Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia gli ha risparmiato il pellegrinaggio in collina a Torino o nel cuore della City, altrimenti avrebbe senza dubbio sentito anche loro.

Insomma. Una faccenda di grandi patrimoni, di grandi finanze, di grandi banche, prima ancora della benedizione e dello sprone del presidente della Repubblica. Inutile rivangare: se si fosse andato a votare allora, sul finire del 2011 o all’inizio del 2012, ci saremmo risparmiati un sacco di seccature tra le quali proprio il disastroso governo Monti, le larghe intese, le fesserie sulle scie chimiche e i microchip, le renzinettes e i Matteoboys.

Però un giochino si può fare, una specie di fiction, diciamo un surreality. Immaginiamo uno scenario diverso. Immaginiamo un leader più o meno incaricato, informalmente , di sondare il terreno per un nuovo governo. Che vada a parlare, invece che con il finanziere nel villone in montagna, nel trilocale in periferia, che so, di Maurizio Landini. Che ne abbia da lui indicazioni, consigli e incoraggiamento.

E che poi vada, che so, alla Cgil a farsi scrivere un piano economico dettagliato, con tanto di provvedimenti urgenti e urgentissimi e una “visione” per rimettere in sesto il Paese. E che poi formi un governo pieno, invece che di banchieri e baroni universitari, di sindacalisti, o co.co.pro., o professori di liceo da 1.200 euro al mese. E magari immaginiamoci pure – non costa niente – un ministro del Welfare che piange in conferenza stampa per la commozione di dover chiedere sacrifici ai grandi patrimoni, alla rendita, ai super-manager con 32 incarichi, alle multinazionali che dribblano il fisco con la plastica agilità di un Cristiano Ronaldo.

Ecco, surreality è la parola giusta.

Allora sì, in quel caso, si sarebbe gridato al golpe, al gomblotto, alla sovversione. Invece, che a decidere e benedire chi doveva andare a Palazzo Chigi siano stati banchieri e finanzieri scandalizza pochi e qualcuno anzi insiste nel dire che è normale e persino giusto. L’espressione “poteri forti” è ambigua e generica, spesso usata a sproposito a copertura di cose che non si capiscono e di cui si sa poco. Qui, invece, nell’affaire Quirinale-Monti-Friedman, i poteri forti si svelano e confessano, anzi, rivendicano il loro operato, lo considerano normale, forse persino doveroso. Il governo dei tagli e dell’austerity, della spending review e degli esodati, delle stupide promesse ai precari, poi precarizzati ancora di più o direttamente licenziati, fu deciso e voluto durante un thè a Sankt Moritz o un briefing nella sala riunioni di una banca. Questo è stato il grande reality italiano che ancora paghiamo carissimo. Per il surreality, si può solo sognare.

Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2014

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