Agli albori della carriera, quando inizia a esibirsi assieme ai Dukes, Steve Fain Earle, classe 1955, cantautore  fra i più celebri, carismatici e controversi che si possano trovare in quell’enorme serbatoio che è il Country statunitense, riesce a imporsi all’attenzione di critica e opinione pubblica, rivisitando in chiave rock e prendendo in prestito lo spirito da personaggi come Bruce Springsteen in primis, quella tradizione musicale americana a cui è legato a doppio filo, raccontandone vita e poesia, frontiera e povertà. Cresciuto in una minuscola cittadina poco distante da Sant’Antonio, Schertz, nel Texas, Steve è il maggiore di  cinque fratelli. Ragazzino vispo ed estroverso, dall’età di 14 anni fa coppia fissa col cugino musicista Nick Fain, con il quale decide di andare a vivere insieme nella città di Houston. Una decisione che risulterà determinante per la sua vita: è questo, infatti, il momento in cui si appassiona alla chitarra, dopo averne ricevuta una in regalo.  Dal momento in cui incomincia a strimpellarla, dimostra di possedere un innato quanto inaspettato talento. Tra festini, sala prove e concerti, oltre a imparare a suonare e a far la conoscenza delle droghe, ottiene agganci in ambito musicale, in particolare con Guy Clark e Townes van Zandt (quest’ultimo lo considererà il suo maestro) esponenti di punta del genere Country, che pur non avendo ottenuto popolarità, negli Stati Uniti sono delle vere e proprie figure di culto.

Il giovane cantautore apprende e impara così velocemente al punto da superare i propri maestri, se non nella scrittura almeno nei loro eccessi. E nonostante navighi in cattive acque, incide brani assieme ad artisti del calibro di Johnny Cash, Willie Nelson, Emmylou Harris, Waylon Jennings, Travis Tritt, The Pretenders, Joan Baez e molti altri. Nel 1986 arriva la grande occasione: la MCA, per la quale aveva iniziato a lavorare come autore grazie all’amico Guy Clark, lo mette sotto contratto e Steve ha la possibilità di incidere e pubblicare il suo primo disco, intitolato Guitar Town che schizza immediatamente al primo posto delle classifiche Country, conquistando anche un disco d’oro. Un album in cui dimostra una spiccata sensibilità verso i temi politici – negli anni Duemila Earle diventa una delle voci più critiche nei confronti delle politiche di George W. Bush – .  Il disco ottiene un successo clamoroso e per Steve, che si presenta come un Outlaw, dall’aspetto trasandato tipico di un eroinomane e look da motociclista, negli Usa viene persino coniato un nuovo termine, “New Country” per indicare la sua musica.  Ma in realtà, Steve è attratto dal rock’n’roll e album come Copperhead Road uscito nel 1988 sempre per la MCA e The Hard Way del 1990 confermano quest’attitudine, mai del tutto sopita.

Il texano è fra gli artisti più stimati e ben voluti della corrente roots, soprattutto per i suoi testi dalla parte dei deboli, dei perdenti,  dei veterani del Vietnam. In questo periodo vive un periodo di grande notorietà, ma è durante la lavorazione di The Hard Way che comincia a scontare la sua dipendenza per alcol e droga. È costretto a fermarsi per due anni, ma alla fine di questo periodo ritorna in gran forma sulle scene pubblicando due album a distanza di 18 mesi: Train a comin’ ottiene una nomination ai Grammy del 1996 come miglior album Folk, mentre I Feel Alright segna la nuova fase artistica del songwriter che dopo aver lasciato in malo modo la MCA, firma per un’altra etichetta, la Warner Bros. L’artista dimostra di aver superato i problemi personali, mostrando una gran lucidità artistica e una gran vena compositiva. Stupenda la canzone autobiografica Cocaine Cannot Kill My Pain. In questo periodo incomincia una seconda fase della propria carriera: l’artista scrive e dirige anche una rappresentazione teatrale contro la pena di morte,  inoltre collabora come autore e attore in molti lavori per la televisione e il piccolo schermo.

Dopo Johnny Too Bad (1996) una session in studio con il gruppo reggae V-Roys, seguon nell’ordine I Ain’t Ever Satisfied (1996), un’accurata retrospettiva sul periodo in MCA; Steve Earle & The Supesuckers (1997) album uscito per la mitica SUB POP e registrato assieme alla band grunge Supersuckers; El Corazon (1997) disco col quale torna alle origini e contenente un brano dedicato a Woody Guthrie e uno a Townes Van Zandt; The Mountain (1999) un tributo al genere bluegrass; Trascendental Blues nel quale oltre ai rinnovati Dukes prendono parte la sorella e amici vari; The Devil’s Right Hand  (2001) uscito nuovamente per la MCA. Nel 2002 invece pubblica Jerusalem, un album che fa discutere, per le forti accuse al sistema americano e ai suoi modelli di vita. In particolare irrita la presenza della canzone intitolata John Walker Blues, dedicata al “talebano americano” passato, appunto, dalla parte del nemico in Afghanistan. L’artista viene boicottato dai media e addirittura accusato di essere antiamericano.

Nel 2004 pubblica The Revolution Starts un disco violento e squilibrato in cui urla il proprio dissenso contro l’America di George W. Bush, è l’album più militante e politicizzato dell’artista. Contiene anche una velenosa canzone d’amore per Condoleezza Rice, l’ex Segretario di Stato americano. Nel settembre 2007, Earle realizza Washington Square Serenade, sfruttando appieno le moderne tecnologie digitali. Dopo aver collaborato con Joan Baez per l’album The Day After Tomorrow e l’omaggio a Townes Van Zandt intitolato Townes (2009), nel 2011 è la volta di I’ll never Get Out of this World Alive, un disco molto triste, in cui parla di viaggi molto più ultraterreni rispetto al passato, ispirato dalla perdita del padre.

Nel 2013 è uscito il suo quindicesimo album intitolato The Low Highway, 40 minuti per 12 brani di matrice country-rock, che vede la formazione dei Dukes, rinnovata, al completo: Chris Masterson alle chitarre, Kelley Looney al basso e Will Rigby alla batteria. Nel disco compaiono anche le Duchesses per una nutritissima rappresentanza femminile: la moglie Allison Moorer al piano, Eleanor Whitmore al violino e Siobham Kennedy, moglie del produttore Roy Kennedy, ai cori. Musicalmente vario, in questo disco c’è il meglio del repertorio del songwriter: persino un violino che guida il bluegrass, nel brano Warren Hellman’s Banjo, il country di Down The Road Pt. II, lo swing di Love’s Gonna Blow My Way,  le atmosfere di frontiera in That All You Got?, in duetto con la moglie. The Low Highway è un disco colmo di vita, ispirato e concepito on the road. Queste sono le parole con le quali Steve Earle ha presentato il nuovo lavoro: “Ho percorso ogni singola strada che attraversa gli Stati Uniti e non mi sono mai stancato dello spettacolo. Ho visto un bel po’ di mondo e il mio passaporto consumato è una delle cose più preziose che ho, ma per me, non c’è niente come la prima notte di un viaggio nel Nord America”. E come sempre, Vive Le Rock!

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