Forse deluso all’idea di non poter più rottamare nessuno, anche perché son quasi tutti saliti sul suo carro, Matteo Renzi sta forse pensando a rottamare se stesso. Una sorta di cupio dissolvi anticipata e forse inconsapevole. Le sue qualità mediatiche sono innegabili: dire niente ma dirlo bene. Una volta conquistato il soglio della segreteria piddina, Renzi si è però sgonfiato. Sbagliando quasi tutto. Non solo politicamente, ma pure mediaticamente.

Delle sue ultime mosse, l’unica che tutti ricordano è la bravura denotata nel rimettere Berlusconi al centro della scena politica. Renzi sta sbagliando comunicazione anche in Sardegna. Spara duro non sul rivale teorico Cappellacci, che pure è rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, ma su Michela Murgia. Sguaina la supercazzola e tuona: “Votare Murgia è un voto che mette a posto la coscienza, ma votare Pigliaru mette a posto la Sardegna”. Poi, nel suo continuo overdose da tapioca prematurata, aggiunge: “Tanta idealità senza concretezza significa fare il bar sport della politica”. Che vuol dire? Niente.

Mentre vuol dire molto, ed è l’ennesimo harakiri mediatico, entrare al Teatro Verdi di Sassari scortato da Gavino Manca, renziano della prima ora e più che altro indagato per peculato aggravato nello scandalo dei fondi regionali. Il Renzi post-Primarie, di colpo, ha perso le parole. Peggio di lui fanno groupies e apostoli, in equilibrio precario tra impreparato e fantozziano: chi sbaglia ministero (Madia), chi farfuglia in tivù (Morani), chi si vanta di aver firmato la mozione Giachetti senza poi votarla (Bonafè). E chi, come lo strepitoso Nicodemo, non per nulla responsabile della non-comunicazione Pd, prima esorta su Twitter alla tolleranza (“Applicare le leggi e educare le persone al digitale. Non servono misure restrittive per la rete, ma educazione formazione cultura”) e un attimo dopo dileggia la Murgia come quasi un troll frustrato (“Secondo voi chi si lamenta di essersi svegliata alle 7.30 sarebbe in grado di guidare una Regione come la Sardegna?”).

 

Renzi rischia di ritrovarsi ora come condottiero di un’Armata Brancaleone sbilenca, capace giusto di generare hashtag da nerd democratici (“#cambiareverso, #cominciamoildomani e magari #comefosseantani).

L’involuzione mediatica di Renzi è palese nel rapporto con Letta. Come intende agire, esattamente, il sindaco part time di Firenze? Non si sa. Probabilmente non lo sa neanche lui. In una memorabile intervista a Repubblica di due giorni fa, Renzi ha sostenuto che adesso per il Pd ci sono tre strade: non una, tre. Un’analisi che va bene per uno statista da bar, non per il segretario del massimo (sulla carta) partito italiano. È come se Renzi credesse che la dialettica con Letta sia da equipararsi a una partita di calcio: “1” è Enrico, “2” è Matteo e “X” il Letta Bis.

Un giorno è conciliante con il premier, quello dopo fa lo sbruffone (su Twitter; dal vivo un po’ meno). Al mattino pare disponibile alla staffetta, al pomeriggio dice che il rimpasto gli fa venire le bolle e che non vuole finire come D’Alema nel ’98. Al lunedì vaneggia di riforme del Senato, al martedì è dubbioso sull’esito finale dell’Italicum-Troiaium. Al mercoledì vuole il voto anticipato, al giovedì torna fedele al partito. Poche idee, e questo è normale; ma confuse, e questo è più strano. Qualcuno dica a Renzi che, in sala, il film è già cominciato. Anche se lui continua a restare nel foyer, mangiando popcorn e aspettando che qualcuno gli spieghi cosa fare e pensare.

Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2014

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