La storia, si sa, la scrivono i vincitori. E non sempre, anzi, quasi mai, la raccontano giusta. Non si è ancora spenta – ed è difficile che ciò avvenga in tempi brevi, viste le continue, reciproche provocazioni tra il Giappone ed i suoi vicini – la polemica sulle visite ufficiali al Tempio Yasukuni (il Mausoleo dedicato ai caduti per la patria, dove tuttavia sono venerati anche alcuni condannati per crimini di guerra) compiute dal premier Shinzo Abe e dai suoi ministri che ecco aprirsi un altro, ancor più delicato fronte. Ricordate i kamikaze? I giovani piloti suicidi che cantando e inneggiando Sua Maestà si lanciavano con i loro aerei contro le navi americane? Più di 4 mila giovani, spesso espressione dell’elite culturale dell’epoca, che studiavano le lingue, intrattenevano contatti con l’estero (soprattutto Europa), discutevano di filosofia (una delle canzoni goliardiche dell’epoca, anche se ufficiamente vietate, era deshonka, acronimo che indica Cartesio, Shopenahuer e Kant) e magari segretamente contestavano anche la guerra; furono, chi più chi meno, costretti a sacrificarsi per la patria.

Per il Giappone, come molti di loro hanno lasciato scritto, non per l’Imperatore, come la raccontano, per motivi diversi, gli storici “organici” sia giapponesi che americani. I kamikaze appaiono infatti alla fine della guerra, come ultimo baluardo per difendere il Giappone, non per portarne avanti la folle guerra di aggressione. Se da un lato sono il simbolo dell’amore per la patria, lo sono anche della profonda malvagità, della perfidia, del cinismo di chi all’epoca la rappresentava (Imperatore, governo, militari) che pur di portare avanti il loro folle progetto, non esitarono a mandare al macello milioni di cittadini. Kamikaze compresi. Eroi, dunque: ma loro malgrado. Uno degli aspetti più “umani” di una guerra che di umanità ne vide poca, cinismo e ipocrisia molta.

Come quella dei vincitori, che dopo aver usato bombe micidiali e inutili, ricominciarono come nulla fosse, e a tutt’oggi non hanno ancor chiesto scusa né al Giappone né al mondo. Il dibattito sui kamikaze eroi o terroristi non si è mai concluso. Fin dall’inizio avvelenato dalle bugie di vinti (il Giappone, che ha sempre accreditato l’immagine del volontario, estremo sacrificio, nascondendone il terribile e diffuso tormento) e vincitori (chi non ricorda film come Tora Tora Tora, dove questi poveracci venivano dipinti come pazzi fanatici “felici” di immolarsi in nome dell’Imperatore), rischia di riaprirsi e di scatenare di nuovo aspre polemiche sia in Asia che nel resto del mondo.

L’occasione la offre la richiesta ufficiale di Kita Kyushu, piccola cittadina nel sud del Giappone sede, all’epoca, della maggior base militare dove si addestravano i tokkotai (“squadre d’attacco speciali”, termine che si usa in Giappone per indicare appunto i kamikaze) di inserire nella “Memoria del Mondo”, un registro universale gestito dall’Unesco, equivalente “documentale” del Patrimonio Universale dell’Umanità, alcune lettere di questi poveri, a volte giovanissimi, piloti. Apriti cielo. Editoriali indignati sulla stampa internazionale, proteste ufficiali della diplomazia, Cina in testa, con il governo di Pechino che ufficialmente denuncia questa richiesta come l’ennesima provocazione di un paese che non vuole fare i conti con la storia. Chi mi conosce e mi segue sa come la penso sulla guerra, sul “passato che non passa” e sulle enormi responsabilità, passate, presenti e se andiamo avanti di questo passo anche future delle autorità giapponesi. Responsabili in passato di aver scatenato una guerra di aggressione senza precedenti, di crimini di guerra tanto efferati quanto in gran parte restati impuniti e di continuare, ancora oggi, a tollerare intollerabili negazionismi che non fanno che danneggiare, a livello internazionale, l’immagine del paese e dei suoi, incolpevoli ma spesso, alla fine, complici, cittadini.

Ma paragonare, come è stato fatto, la richiesta del sindaco di Kita Kyushu, Kampei Shimoide, persona mite e, per quel che ho potuto constatare parlandoci, in buona fede, all’ipotesi di registrare gli ordini di sterminio degli ebrei da parte dei nazisti o i proclami di Al Qaeda mi sembra francamente fuori luogo. No, non è la stessa cosa. Al contrario, mi sembra una sacrosanta inziativa. Intanto perchè, a 70 anni della guerra, offirà l’occasione per una nuova, più obiettiva riflessione sugli effetti devastanti della propaganda, del lavaggio del cervello che allora (ma succede ancora in certi paesi e potrebbe risuccedere anche da noi) i governi riuscivano ad effettuare. Ma anche per far luce sul fatto che, contrariamente a quanto sostiene la storiografia ufficiale e la letteratura patriottica, questo estremo sacrificio non era vissuto con fanatico entusiasmo ma con grande tormento, sofferenza, paura. E perfino dissenso.

Certo, dipenderà molto – e mi dispiace che il sindaco, trincerandosi dietro il fatto di dover mantenere la riservatezza sino a quando l’Unesco non prenderà la decisione – da quali lettere, quali diari verranno depositati ed esibiti. Perché accanto alle note strappalacrime in genere pubblicate ed esibite in Giappone (tipo questa di tale Fujio Wakamatsu 19 anni, pubblicata dall’Asahi: “Cara madre, cosa mai posso dirti, ora…andrò incontro alla mia missione con un sorriso pensando al mio amore per te……Sappi che non piangerò e ricordati di lasciarmi dei dolcetti per quando non ci sarò più”) e alla patetica retorica di film come “L’abbiamo fatto per voi”, scritto dall’ex governatore di Tokyo Shintaro Ishihara (mai uscito dal Giappone e oggetto anche in patria di un clamoroso flop) ci sono anche lettere di tutt’altro tenore, raccolte con pazienza dalla storica nippoamericana Emiko Ohnuki Therney (La vera storia dei kamikaze, Mondadori). Tipo questa, scritta poche ore prima di morire da Hayashi Tadao 23 anni: “L’alba deve ancora nascere. Sono le tre di notte. Non voglio morire! Vorrei cercare di vivere una vita piena. No, non voglio morire. Mi sento solo. Non so perché mi sento così solo”.

In altra parte del suo diario, scriveva: “So che devo accettare il destino della mia generazione, di combattere in guerra e di morire. Lo chiamo destino, visto che dobbiamo andare a morire senza poter esprimere le nostre opinioni, senza discutere e criticare i pro e i contro, senza poterci comportare secondo i nostri principi individuali. Morire in guerra, morire su richiesta della nazione: non ho la minima intenzione di elogiare questa fine: è una grande tragedia”. Non sembrano parole di un fanatico, parole che possano, in qualche modo risvegliare pericolosi istinti neonazionalisti e revanchisti, in un paese dove qualche giorno fa, in occasione delle elezioni per il nuovo governatore di Tokyo, 600mila persone, in gran parte giovani, hanno votato per un pazzo scatenato, tale Tomogami (ex capo di Stato Maggiore dell’Aereonatica) che auspica una nuova guerra di “liberazione” e la rivincita, armi in pugno, con la Cina.

Tutt’altro, queste tragiche e al tempo stesso commoventi parole ci mettono in guardia. Rappresentano un monito. Più che impedirne la registrazione nella Memoria dell’Umanità, ne imporrei lo studio, e la discussione, in tutte le scuole dell’Impero. Dove ai giovani giapponesi, anzichè la storia, viene ancora raccontata, tra altre fandonie, la storiella dei kamikaze che, a seguito del loro spontaneo sacrificio, si trasformavano in leggeri petali di ciliegio. Il bello (anci, il brutto) è che a giudicare da quei diari (in Giappone poco pubblicizzati) sembra che siano più i giovani d’oggi, a berla, piuttosto che i poveri kamikaze. Ancora Tadao Hayashi, questa volta in versi: “Stupido Giappone / Insensato Giappone / Per quanto io sia impazzito / Noi che ti apparteniamo / Dobbiamo alzarci a difenderti”. Eroi, certo, ma loro malgrado. Eroi di cui il Giappone, ed il mondo intero, speriamo riescano a fare a meno.

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