Cinema

Festival Berlino 2014, i maestri Lars von Trier, Tsai Ming-Liang e Alain Resnais

Domenica 9 febbraio i tre grandi cineasti hanno portato rispettivamente fuori concorso, in Panorama e in concorso altrettante opere talmente rappresentative del proprio modo di fare e intendere il cinema

di Anna Maria Pasetti

Silenzio in sala: parlano i maestri. Berlino li attendeva a brillare il 9 febbraio, e loro hanno mantenuto le aspettative. Lars von Trier, Tsai Ming-Liang e Alain Resnais. Così vicini e così lontani, mutuando ad hoc il celebre titolo del local hero Wenders, i tre grandi cineasti hanno portato rispettivamente fuori concorso, in Panorama e in concorso altrettante opere talmente rappresentative del proprio modo di fare e intendere il cinema che possono ragionevolmente considerarsi prossime al “definitivo”, anzi per meglio dire “definitorie”. Non si vuole qui alludere ai livelli di (im)perfezione o gradimento personale di Nymphomaniac (Vol I, dunque ancora incompleta, come si è già scritto qualche settimana fa), di Xi You (Viaggio verso Ovest) o di Aimer, Boire et chanter, bensì di decodificare tali pellicole dentro ai loro linguaggi, per la generazione dei quali i citati autori sono ritenuti paradigmatici nei manuali di storia del cinema.

Diversi in tutto ma accomunati da un’intenzione: rompere le regole narrativo/estetico/ drammaturgiche della linearità per rimontarle secondo una visione personale, e riconoscibile. Il meccanismo di de-costruzione e ri-costruzione che banalmente distingue l’artista dal replicante/artigiano. In quest’ottica, Berlinale 2014 ha il pregio (e la fortuna) di aver “catturato” esempi emblematici del “modello von Trier”, del “modello Ming-Liang” e del “modello Resnais”.

Nymphomaniac reinventa “gattopardescamente” la poetica di Lars von Trier (classe 1956) affinché egli possa continuare ad essere se stesso: la maniacalità del voyeurismo, l’ostentazione simbolica, il sarcasmo portato all’estremo, l’identificazione ossessiva coi personaggi. Lars è pervasivo, odioso e geniale, ninfomane dell’ego, sempre e comunque il grande Provocatore del cinema contemporaneo. Esprime la maniacalità ossessiva per il sesso della sua Joe/Charlotte Gainsbourg nel più filosofico/religioso dei modi, lontanissimo dalla pornografia che erroneamente (ma genialmente efficace) ha promosso finora il film. Con la medesima ed opposta potenza, il maestro taiwanese Tsai Ming-Liang (classe 1957) si è riproposto a Berlino dopo l’ennesimo capolavoro portato alla Mostra di Venezia (Stray Dogs, Gran premio della Giuria) – e dichiarato come suo “ultimo film” – con un lavoro di 56’, ovvero in formato “corto”, considerando i suoi standard.

Xi You non ha dialoghi, contiene lunghi piani sequenza di Bellezza assoluta. Sesto capitolo della serie “Walker” (“il camminatore”) mette in mostra lo straordinario suo attore feticcio Lee Kang Cheng mentre cammina assai lentamente abbigliato da monaco tibetano per le strade di Marsiglia. Dietro a lui, mimetico di gesti e ritmi, l’attore francese Denis Lavant, che von Trier ha voluto dopo averlo apprezzato nella splendida interpretazione di Holy Motors di Leos Carax, il film vincitore “morale” del festival di Cannes 2012. Esperienza visiva spirituale, estraniante, ed “esistenziale” il Viaggio verso Occidente contiene l’essenza del cinema dell’artista di Taiwan, capace di coinvolgere lo spettatore (che sia disposto a farsi coinvolgere) in un mantra salvifico, laddove il cinema diventa anche altro, ed essenzialmente una meditazione sul senso della vita nella maniera più pura. Il monaco è scalzo, e l’Uomo liberato.

“Considero l’opportunità della serie Walker un dono del cielo nella mia carriera di cineasta”, ha dichiarato l’autore, peraltro persona squisita, di titoli cult quali Vive l’Amour e Goodbye, Dragon Inn. Purtroppo, salvo in qualche coraggiosa rassegna, di Xi You non è prevista alcuna distribuzione italiana. Così come ad oggi non è prevista quella di Aimer, Boire et Chanter (titolo internazionale Life of Riley) dell’immenso cinéaste française Alain Resnais (classe 1922). Dietro a lui decenni di storia del cinema (e fondamenta di movimenti come la Nouvelle Vague), davanti a lui ancora capacità di rinnovarsi, giocare con il mezzo-cinema, restituire leggerezza al testo filmico. Testo che in questo caso è ispirato alla piéce scritta nel 2010 dal drammaturgo londinese Alan Ayckbourn, che Resnais con la moglie Sabine Azéma (protagonista di questo e vari suoi film) ha visto in un teatro del borgo inglese di Scarborough. Per anni teorico e critico dell’arte di cui è diventato indiscusso maestro, Resnais ancora oggi non smette di sperimentare.

Ed ecco, dunque, che l’ex Nouvelle Vague jeune, colui che ha “proustianamente” scelto l’ossimoro di un “ordinato caos narrativo della memoria” per darne una forma di personalissimo anti- naturalismo, prende il testo di un absolute British e ne fa un’opera meta-teatrale e meta-cinematografica insieme. Come? È lui stesso a dirlo rispondendo al solito quesito “Perché fare il cinema?” Risposta: “Per vedere/mostrare come si fanno i film. Per questo mi sono innamorato del teatro di Ayckbourn, che solo apparentemente sembra una commedia, ma non lo è. Basta osservare i rischi che si prende nella costruzione drammatica. So che lui tenta di fare il teatro usando i codici del cinema: bene io tento di fare il teatro dentro al cinema”. Giochi di parole, dialoghi serrati, reinvenzione di spazi/tempi e situazioni. A partire dalla rappresentazione dei fiori nei giardini dei protagonisti: alcuni veri, alcuni disegnati su cartone, senza un criterio razionale. Questo è Resnais, un giovanotto di 94 anni.

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