Bullismo e social network. Un caso risolto? Forse no. Un nuovo caso di violenza tra ragazzi scuote i social network.

Si tratta di un video che è stato fatto  circolare il 6 febbraio stesso sui social network. Il video tutt’ora presente su Facebook è stato riportato anche da ilfattoquotidiano.it e si riferirebbe ad un vero e proprio “pestaggio” di una giovane all’apparenza minore di età, compiuto, a quanto pare da una “rivale in amore” nella cittadina di Bollate.

Il tutto sarebbe avvenuto alle 14:00 del 6 febbraio. Il contesto in cui si sarebbe svolto il pestaggio desta qualche preoccupazione.

Di fronte ad una violenza evidente di una giovane ragazza, le decine di giovani presenti, reagiscono senza aiutare la ragazza oggetto del pestaggio,ed, anzi, appare evidente l’incitamento ulteriore alla violenza.

Come accade in casi di questo tipo la vicenda giungerà ora presso il tavolo della Procura locale, dal momento che i genitori della giovane oggetto delle violenze, avrebbero sporto denuncia.

La vicenda arriva a pochi giorni dal deposito delle motivazioni relative al Procedimento Google-Vividown, un caso di cronaca di qualche anno fa che aveva visto protagonisti alcuni ragazzi che irridevano un soggetto disabile.

In quel caso la Cassazione ha assolto i dirigenti di Google per non aver commesso il fatto, ritenendo in sostanza che il trattamento dei dati personali sia di esclusiva pertinenza di chi posta il video e che, dunque non vi possa essere responsabilità del gestore della piattaforma di blog, di video o, si deve ritenere anche il social network.

In particolare la sentenza 5107 ha statuito che “dall’esame delle norme emerge che in nessuna di esse sia prevista che in capo al provider, sia esso anche un hosting provider, un obbligo generale di sorveglianza dei dati immessi da terzi sul sito da lui gestito. Né sussiste in capo al provider alcun obbligo sanzionato penalmente di informare il soggetto che ha immesso i dati dell’esistenza e della necessità di fare applicazione della normativa relativa al trattamento dei dati stessi”.

Il caso portato oggi all’attenzione del fatto, pur non rientrando a pieno titolo in quello che si chiama cyberbullismo,  ripropone però drammaticamente la domanda che tutti dovrebbero porsi in casi di questo tipo.

Al di là di una ipotetica responsabilità del titolare della piattaforma è utile o no che un video di questo tipo possa continuare a circolare sul web?

E’ necessario un intervento di rimozione dei contenuti o può bastare la denuncia sociale, che in questo caso sembra scattata allorquando gli organi di informazione si sono accorti del video?

Ed ancora, la tutela dei ragazzi può essere attuata consentendo anche a soggetti terzi di richiedere la rimozione di un video, oppure la richiesta deve provenire necessariamente da chi si ritiene leso dal video?

A queste domande sembra aver cercato di porre rimedio, almeno in una forma embrionale, un Codice per il cyberbullismo, promosso dal Ministero dello Sviluppo economico, la cui fase di consultazione con il pubblico terminerà nei prossimi giorni.

Il Codice tra le altre cose sembra ipotizzare la necessità che un responsabile della piattaforma debba rispondere nella stessa lingua di chi segnala, operando un punto di contatto tra chi si ritiene leso nei propri diritti e la stessa piattaforma.

Nulla e nessuno può sostituire ovviamente la famiglia nella tutela e nell’educazione dei minori, ma la domanda che tutti si pongono di fronte a casi come questi è: basterà un Codice di autoregolamentazione o sono necessari interventi più incisivi? Dal momento che, come statuito dalla Cassazione nel caso vividown, la piattaforma di fatto non è responsabile del trattamento dei dati personali?

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