Sebastião Salgado, GenesiPossono subissarci di moniti, allarmi, denunce, tonnellate di dati numerici inquietanti o valanghe di raccomandazioni politically correct spesso impartite con la pedanteria del “non si fa”. Il punto è che un tema urgente e cruciale come la salvaguardia del pianeta non dovrebbe finire diluito nel mare magnum dei buoni propositi o dei proclami mediatici triti e ritriti. Ecco che dunque un fuoriclasse dell’immagine come Sebastião Salgado ha pensato di avvalersi di un mezzo espressivo finalmente all’altezza del messaggio, ovvero di ricorrere alla più efficace ed irresistibile delle persuasioni: la bellezza assoluta. Com’era il nostro mondo prima che una manipolazione spesso aggressiva ed invadente ne snaturasse i connotati? Come potrebbe tornare ad essere in presenza di inquilini più attenti e rispettosi? Ma soprattutto: quale miglior incentivo alle condotte ecosostenibili di una biodiversità lussureggiante ed imprevedibile, da assaporare o pregustare con lo sguardo?

Attraverso le sontuose 240 immagini di Genesi, la mostra fotografica inaugurata qualche giorno fa a Venezia nello spazio espositivo dei “Tre Oci” alla Giudecca, Salgado rivela porzioni di pianeta incontaminato, cioè squarci di quel 45% di superficie terrestre in cui i costituenti primordiali della vita, quali acqua, aria, terra e fuoco, conservano sembianze molto simili a quelle delle origini dell’avventura umana. Per scovare questi angoli di mondo integro, il celebre fotografo brasiliano ha impiegato otto anni e trentadue viaggi in giro per i continenti, poli inclusi. Come spiega la moglie Lélia Wanick Salgado, presente al suo fianco anche in veste di curatrice dell’esposizione, il materiale è suddiviso in cinque sezioni corrispondenti ad altrettante macro-aree del globo, partendo dal sud – ovvero Argentina, Antartico ed isole –, per poi percorrere la sezione riservata all’Africa e giungere alla terza parte che include alcune isole dalle caratteristiche davvero peculiari, quali Madagascar, Papua Nuova Guinea e terre degli Irian Jaya.

Si prosegue poi, nel quarto blocco, con le zone fredde del Nord, tra le quali anche il Colorado statunitense, per poi concludere con una quinta area dedicata in toto all’Amazzonia, il cosiddetto “polmone del mondo”, nonché sito planetario col più alto coefficiente di biodiversità, poiché da solo ospita ben un decimo di tutte le specie terrestri. Chiave di lettura del singolare racconto è un bianco e nero che non smorza ma, al contrario, virtuosisticamente enfatizza la varietà vertiginosa delle forme viventi: trame di grovigli vegetali che non hanno nulla da invidiare alle più elaborate architetture barocche, una galleria di specie animali degna della più fervida fantasia di un libro di fiabe, dagli iguana marini alle tartarughe giganti, fino alla maestosa inarrivabile regalità del giaguaro delle Americhe. E poi, ovviamente, l’uomo, impersonato di volta in volta dai Pigmei del Congo o dai Boscimani del Kalahari, dagli Himba della Namibia agli Yanomami e i Cayapó brasiliani, tutti con i loro riti tribali ed iniziatici, ma anche con la loro medicina primitiva, fatta di antibiotici ed antinfiammatori rudimentali.

Uno “spettacolo” in piena regola, che l’obiettivo restituisce con un rigore estetico e compositivo solidissimo, ovvero con uno sguardo autoriale potente e riconoscibile, che non ha nulla di timido o minimalista. Del resto anche l’identità e la storia pregressa di Salgado – che l’8 febbraio doppierà la boa delle 70 primavere – riflettono appieno questo approccio concreto ed incisivo, non solo alla fotografia ma anche alla causa ecologista, dato che, insieme alla moglie Lélia, alcuni decenni fa l’autore promosse in prima persona un poderoso progetto di recupero ambientale della foresta equatoriale, a rischio di estinzione, riuscendo a piantare oltre due milioni di nuovi alberi appartenenti a 300 specie vegetali diverse. In tale prospettiva, anche la mostra Genesi, nel lungo itinerario che si appresta a percorrere soggiornando in numerose capitali europee ed extra-europee, prosegue una campagna di sensibilizzazione ecologica delle coscienze che verrà ulteriormente supportata dalle riflessioni scritte di Salgado, pubblicate nel libro in uscita Dalla mia Terra alla Terra, e dalla visione di Shade and Light, il film che Wim Wenders, ispirandosi appunto all’opera dell’artista brasiliano ed avvalendosi della collaborazione del figlio Juliano Ribeiro Salgado, è in procinto di concludere.

Ma dalle immagini di Genesi traspare già un “testamento” la cui forza risiede proprio nel suo essere privo di sdolcinatezze elegiache o deliri new age e, per contro, intriso di un realismo profondo. Le foreste – ha spiegato ad esempio Salgado – sono così essenziali non solo perché attraverso la fotosintesi clorofilliana degli alberi producono ossigeno, ma anche perché trattengono l’umidità del suolo consentendo ai sistemi idrici di continuare ad alimentarsi. Alcune delle montagne che ci circondano sono più “vive” di ciascuno di noi per la precisa ragione che l’esistenza di un qualsiasi essere umano può protrarsi, nei paesi più avanzati, fino agli 80 o 100 anni al massimo, cioè per un lasso di tempo incredibilmente fugace e transitorio rispetto a quello di molti degli ecosistemi che ci circondano.

Dunque osservando le formidabili immagini di Salgado avvertiamo la sensazione, quasi wittgensteiniana, che il solo “essere” del mondo ci basti e ci avanzi, riempiendoci quasi oltre la soglia del tollerabile. Di più: ci sovrasta e ci travolge, come tipicamente avviene in quella particolare modalità di esperienza estetica che gli antichi chiamavano “sublime”. Accediamo insomma alla dimensione poetica di una “genesi” sì, ma rigorosamente laica, ovvero allo splendore di un mondo in cui il magnifico avvicendarsi del ciclo della vita e della morte non ha alcun bisogno di metafisiche, né di teologie o di sovrastrutture di cartapesta, perché “è”, nel senso più puro e granitico del termine.

Una percezione o una visione dell’esistenza che Prévert descriverebbe forse meglio di chiunque altro: “Notre Père qui êtes au cieux/ Restez-y/ Et nous nous resterons sur la terre/ Qui est quelquefois si jolie […] Avec toutes les merveilles du monde/ Qui sont là/ Simplement sur la terre/ Offertes à tout le monde/ Eparpillées/ Emerveillées elles-mêmes d’être de telles merveilles/ Et qui n’osent se l’avouer”.

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