Qualcuno crede al caso, o alla fortuna. Ma in genere la maggior parte dei cambiamenti avviene per la determinazione dei suoi protagonisti. La storia di Emilio Vacca, 43 anni, da quasi tre a Londra, si potrebbe riassumere così: un lungo percorso fatto di sacrifici e grande volontà. “Volevo assolutamente riuscire a costruire qualcosa e cambiare mestiere. E’ stato un processo che mi è costato molta fatica ma alla fine, qui all’estero, ha pagato. In Italia no. E questo mi fa rabbia”.

Dopo 5 anni a Roma in una società di radiologia digitale come consulente informatico, Emilio ha cominciato a fare altri programmi: “La mia posizione era buona, ero il responsabile del settore tecnico e avevo uno stipendio buono, ma il mio contratto era a progetto”. Una situazione che dopo qualche tempo comincia a logorarlo, ma che lo ha stimolato a migliorare. “Ero interessato alla tecnologia mobile. Tornavo a casa dall’ufficio e cominciavo a lavorare di nuovo: così ho studiato il linguaggio informatico Ios e ho sviluppato un’applicazione sull’olio d’oliva, che spiegava le qualità di questo prodotto, come assaggiarlo. Una nicchia dove c’era mercato”. E dalla nicchia il progetto è cresciuto sempre di più. “Sull’app store è stata scaricata un migliaio di volte. Dopo un mese e mezzo sono stato contattato da un magazine statunitense specializzato in questo settore che mi ha proposto una collaborazione. I risultati sono stati ottimi e dopo altri due mesi ho ricevuto la telefonata di una cacciatrice di teste londinese, una figura specializzata nel trovare lavoro, che mi ha proposto un colloquio per un colosso dell’ecommerce di alta moda online, anche se non avevo mandato nessun curriculum a Londra. Due settimane dopo ero lì con contratto a tempo indeterminato e numerosi benefit, tra cui assicurazione sanitaria e casa pagata per le prime due settimane per darmi il tempo di trovarne una mia. Il tutto a uno stipendio doppio rispetto a quello che prendevo in Italia”.

Il processo non si ferma qui. “In seguito mi è arrivata una telefonata del Telegraph, uno dei quotidiani più importanti del Regno Unito, che mi ha offerto di diventare responsabile tecnico del mobile, cioè di occuparmi di tutto quello che riguarda le applicazioni per tablet e telefoni. Così, entrato nel mercato londinese come junior developer, semplice sviluppatore, ho fatto carriera ottenendo buoni risultati e una posizione da manager. Chi sarebbe mai riuscito a immaginare lo stesso percorso in Italia?”.

Qui, infatti, prima del successo londinese nessuno lo aveva mai cercato. L’unico contatto è quello con una storica casa di moda italiana, che, durante l’esperienza presso la società di ecommerce gli offre “un contratto a tempo indeterminato a un terzo dello stipendio, per lo stesso tipo di lavoro”. Che lui rifiuta. Nel Regno Unito Emilio scopre un mercato del lavoro molto diverso: “In Italia ho lavorato 5 anni senza riconoscimenti e senza poter crescere professionalmente, anche perché erano tutti ‘baroni’. A Roma i manager arrivavano anche a 88 anni, a Londra ne hanno 35. E poi è l’organizzazione del lavoro ad essere diversa: nelle aziende non ci sono pagamenti in nero, straordinari non pagati. Il riposo è considerato fondamentale in un’ottica di rendimento. E al Telegraph, per esempio, se porti qualcuno di talento in un settore dove loro hanno bisogno, ti danno mille pound di premio, perché li hai aiutati a migliorarsi”.

In particolare poi, il “lavoro dello sviluppatore in Italia è a un punto fermo, invece di essere uno dei settori trainanti. Siamo tra i 5 e 10 anni indietro in questo campo rispetto all’estero. Se in Italia trovi un posto, non lo lasci perché hai paura di non trovarne un altro. Qui, nel mio campo, c’è una mobilità diversa. In più è differente la concezione del lavoro da freelance: vieni pagato il doppio di un lavoratore con contratto a tempo indeterminato, perché ti viene riconosciuto il rischio di poter lavorare poco. Così se lavori solo 6 mesi devi avere la possibilità di poter vivere come uno che lavora un anno. Certo, non si trova lavoro all’improvviso: bisogna affrontare colloqui di lavoro davvero impegnativi ed essere competenti, ma quante persone preparate ci sono in Italia?”.

Quello che c’è stato prima fa parte del cammino, una strada che va percorsa guardando avanti: “Se fossi rimasto in Italia sarei finito nella classica azienda di informatica che si barcamena con i contratti a progetto e forse non avrei avuto un figlio. Avrei avuto paura. Ora sono qui con mia moglie Sabrina e nostra figlia Anita Elizabeth, di 17 mesi”. Ma l’amarezza, in qualche modo, rimane. “Il nostro Paese ci forma bene, ma poi non sa sfruttare le sue risorse. Abbiamo delle potenzialità pazzesche: gli italiani sono bravi e qui sono visti benissimo, perché sanno che lavoriamo sodo e che l’università ci prepara ad alti livelli. Ma poi? Quando sono andato via, in molti mi hanno detto ‘sei un eroe’. Io credo che debba essere definito così chi rimane, perché fa davvero fatica per ottenere qualcosa. Io mi sono impegnato molto per arrivare fin qui e mi fa davvero arrabbiare pensare che in Italia ci siano persone di talento che si impegnano allo stesso modo ma non riescono a realizzarsi, perché non ci sono le condizioni”.

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