“Dall’esame delle norme emerge che in nessuna di esse sia prevista che in capo al provider, sia esso anche un hosting provider, un obbligo generale di sorveglianza dei dati immessi da terzi sul sito da lui gestito. Né sussiste in capo al provider alcun obbligo sanzionato penalmente di informare il soggetto che ha immesso i dati dell’esistenza e della necessità di fare applicazione della normativa relativa al trattamento dei dati stessi”.

È uno stralcio delle motivazioni della sentenza n.5107 depositata ieri dalla Terza sezione penale della Corte di Cassazione sul caso Google – Vividown, che ha confermato l’assoluzione definitiva dei tre manager di Big G, finiti sul banco degli imputati per un video choc pubblicato da una ragazzina su YouTube nel quale un bambino con sindrome di Down veniva picchiato e deriso dai suoi compagni di scuola.

Una vicenda iniziata nel 2006, caratterizzata da un forte impatto emotivo e dalle notevoli ricadute sulla disciplina della responsabilità degli intermediari della comunicazione, tema peraltro centrale nello sviluppo dell’informazione e dell’online, che ha posto l’Italia all’attenzione internazionale.

Nel 2010, in primo grado, il Tribunale di Milano condannava a sei mesi di reclusione con la condizionale i tre dirigenti di Google Italia David Carl Drummon, George De Los Reyse e Peter Fleischer  per violazione della normativa sulla privacy. Secondo le contestazioni, Google avrebbe dovuto vigilare sui video ospitati e accertarsi che tutti i protagonisti del filmato (per giunta minorenni) avessero dato il proprio consenso.

In appello ogni accusa cadeva, la sentenza veniva ribaltata ed i tre manager venivano “assolti perché il fatto non sussiste”.

A mettere la parola fine, però, ci ha pensato la Cassazione che senza ombra di dubbio ha affermato che chi mette a disposizione uno spazio web perché gli altri vi pubblichino dei video, non può considerarsi titolare del trattamento di tutti i dati personali contenuti nei video caricati online dagli utenti e, di conseguenza, non può ritenersi obbligato ad alcun adempimento a tutela della privacy dei terzi né tanto meno ad evitare che gli utenti la violino.

In un Paese ostile alla Rete, al suo sviluppo e alla cultura digitale, che pensare se ad essere denunciati fossero stati (o fossero) emuli dei fondatori di Google, YouTube, Facebook o Twitter?

Il gestore del servizio di hosting, afferma la Suprema Corte: “Non ha alcun controllo sui dati memorizzati, né contribuisce in alcun modo alla loro scelta, alla loro ricerca o alla formazione del file che li contiene, essendo tali dati interamente ascrivibili all’utente destinatario del servizio che li carica sulla piattaforma messa a sua disposizione”.

Vale la pena leggere un altro passaggio delle motivazioni scritte dal Consigliere Alessandro Andronio e dal Presidente Saverio Mannino:

“La posizione di Google Italia e dei suoi responsabili, imputati nel presente procedimento, è infatti quella di mero Internet host provider, soggetto che si limita a fornire una piattaforma sulla quale gli utenti possono liberamente caricare i loro video; video del cui contenuto restano gli esclusivi responsabili. Ne consegue che gli imputati non sono titolari di alcun trattamento e che gli unici titolari del trattamento dei dati sensibili eventualmente contenuti nei video caricati sul sito sono gli stessi utenti che li hanno caricati, ai quali soli possono essere applicate le sanzioni, amministrative e penali, previste per il titolare del trattamento dal Codice Privacy”.

“Ne deriva, più in particolare – concludono i giudici di Piazza Cavour – che i reati di cui all’art. 167 del Codice Privacy, per i quali qui si procede, devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi poteri decisionali”.

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