La Fiat non è più italiana. Emigra seguendo convenienza e vantaggi fiscali.  Secondo alcuni che ricorrono al latinorum “ubi pecunia, ibi patria”. Per altri di profonda ingratitudine verso un Paese che l’ha arricchita di incentivi e ancora più di intelligenze e lavoro. Tornano in mente gli anni in cui un’Italia sgarrupata sapeva sfornare – alla faccia di colossi come gli Stati Uniti e la Germania – innovazioni industriali che hanno fatto la storia dell’auto. Ma questo addio non ci induce a ragionare solo di industria, finanza e politica. C’è qualcosa d’altro: l’appartenenza a un luogo. Le radici.

Una questione che riguarda noi individui, ma anche le industrie che sono, in fondo, fatte di persone (i manager, ma anche gli operai).

Un tema che abbiamo imparato a liquidare assimilandolo sbrigativamente a un nostalgico provincialismo, peggio a un gretto localismo: oggi siamo cittadini del mondo.

Ma è davvero così? Avere delle radici forti significa non essere capaci di attenzione verso il mondo in cui viviamo? Vuol dire rinchiudersi nell’orizzonte che abbiamo davanti ogni giorno? Forse no. Verrebbe da pensare all’utopia splendida, e però reale, di un industriale come Adriano Olivetti (che non viveva su un aereo come dice compiaciuto John Elkann di Sergio Marchionne), capace di creare a Ivrea una città a misura d’uomo e di impresa. Dove il benessere dei lavoratori portava benefici all’industria, creando un senso di appartenenza e di orgoglio, un fiorire di intelligenze che contano più degli sgravi fiscali. Un discorso che non tocca solo le persone giuridiche, ma anche quelle fisiche, cioè noi cittadini. Individui. Cosa sono per noi le radici e che importanza possono avere nella nostra vita?

Appartenere a un luogo è prima un legame che un vincolo. Non è necessariamente un limite alla libertà. La città, il paese in cui viviamo ci danno nell’arco di una vita la dimensione della nostra persona. Ci insegnano quali sono i nostri limiti, ma ci riconoscono anche un ruolo. La nostra esistenza si riflette, trova conferma nella comunità cui apparteniamo. Da qui derivano responsabilità, parola ambivalente che contiene i doveri, ma anche l’occasione che ci è concessa di contribuire al cambiamento. Di lasciare un segno con la nostra vita. Non solo: il legame con un luogo è garanzia di diritti, di protezione. Ci aiuta a condividere un destino comune. Non c’è niente di angusto nell’avere radici. Anzi, forse, è vero il contrario: ci aiuta a trovare una prospettiva del mondo che è presupposto della visione, di una libertà fatta di scelte. L’opposto di un distacco vago e indifferente.

il Fatto Quotidiano del Lunedì, 3 Febbraio 2014

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