Resistenza è una parola grossa, così carica di significato che non la puoi pronunciare senza essere etichettato. A meno che tu non sia un elettricista. Ma che importa, io vengo etichettato quando dico che son “papà militante” per cui “Ah, sei di sinistra?” vagli a spiegare che il senso è quello di uno che passa molto tempo con i figli, tutto qui. Ci sono tanti modi per fare resistenza: penso a Primo Levi che racconta di come nel campo di concentramento fosse resistenza lavarsi, nonostante tutto, per mantenere uno straccio di dignità; penso all’ostinazione di chi paga le tasse in un paese come l’Italia, dove onestà è resistenza; penso alla resistenza di chi ancora sorride quando dice buongiorno senza assumere quell’aria drammatica perchè ha paura dello straniero. Penso alle parole del diario dalla Palestina di Cecilia, in questa ultima tappa, e che una testimonianza come la sua è resistenza,  “Il fascismo si cura leggendo e il razzismo si cura viaggiando” scrive Miguel de Unamuno.

Buona lettura e buon viaggio.

Giorno 13, Nablus

diario-palestina“Falastini! Tonight we’ll dine in hell!” grida per smorzare la tensione uno dei ragazzi di Nablus, mentre ci mostra la sua maschera antigas. “Ci ho aggiunto questa ventola, così non mi si appannano gli occhi e posso prendere la mira”.

Siamo sul pullman per il villaggio di Bil’in, al nostro seguito i giganteschi Puppets che abbiamo costruito per la parata pacifica. Il punto è che non stiamo andando a manifestare in una città qualunque, in un paese qualunque. Stiamo andando a Bil’in e ci andiamo di venerdì, giorno di festa e di riposo. Riposo si fa per dire: qui quando non si lavora si va prima a pregare, e poi sotto al Muro, al di qua dei Settlements, a gridare agli israeliani che sono dei nazisti e che la Palestina ha sete di giustizia e libertà. E a tirare sassi, si, solo quell’arma hanno contro muri soldati fucili carrarmati bombe pistole, a tirare sassi alla cieca sapendo benissimo che non serve a nulla ma sapendo anche che ogni sasso che supera il muro è un grido di resistenza tangibile per i soldati che stanno al di là.

Stiamo andando a Bil’in. Sul pullman ci danno le istruzioni per essere pronti a tutto (“non puoi mai sapere con che umore si siano svegliati oggi i soldati”) e distribuiscono beni di prima necessità. Mascherine e garze imbevute nell’alcool.

“Non aspettate che arrivino i lacrimogeni per mettere la maschera: tenetela dall’inizio. Controllare da subito in che direzione tira il vento. Quando sparano i lacrimogeni, tear gas, aspettate. Non impanicatevi. Guardate dove cadono, è iniziate a correre quando hanno toccato terra: così sapete dove andrà il gas e come evitarlo. Se il gas vi becca, respirate lentamente e lasciate lacrimare gli occhi, non toccatevi la faccia, e non buttateci acqua! Non bevetela nemmeno, peggiorereste le cose. Aprite la bustina e cercate di respirare alcool. Se vi da fastidio, compreremo delle cipolle sulla via. Funzionano benissimo!

Tireranno prima lacrimogeni, poi potrebbero passare ai proiettili di gomma. In quel caso, l’importante è che non vi colpiscano alla testa. Poi potrebbero passare ai proiettili veri. Allora scappate. I Palestinesi aprono le case vicine quando c’è una manifestazione, rifugiatevi là. Lasciate gli zaini sul pullman. E anche le giacche e i maglioni, non si sa mai: se avete caldo sanguinerete più velocemente.”.

Gli altri cantano e scherzano per combattere la paura. Io sono nel panico più totale. Alla fine decido di farmi coraggio e di andare, di stare nelle retrovie ma di vedere coi miei occhi.

E vedo gli archi di fumo nell’aria dei grappoli di tear gas cadere vicino ai ragazzini che lanciano le pietre. E vedo i ragazzini con solo una kefiah sul viso correre spavaldi a prenderli, “jalla! jalla!”, e poi ritirarli con le fionde a chi li ha sparati, che se la piangano loro. Vedo internazionali che suonano tamburi, vedo uomini con scritto Press sulla giacca blu che riprendono tutto al di là delle maschere antigas, sperando che quella scritta li renda immuni. Vedo i palestinesi felici dei Puppets che abbiamo portato sollevarli insieme a noi e mostrarli felici ai soldati, a dire ‘il sorriso non ce lo avete tolto, e non siamo soli’. E sento uno sparo. Uno sparo, ma in aria non si vedono lacrimogeni. A 50 metri da me un uomo zoppica, si trascina, la gamba sanguina. Accorre gente, chiedo a qualcuno “real bullets?”. La risposta è Yes. Cominciano a correre, chiedo: ‘Cosa succede?‘ succede che arrivano i soldati. Scappo tra gli ulivi insieme a tutti gli altri, arrivo vicino al pullman. La manifestazione scema, quando sparano basta. Un paio di ambulanze, due o tre feriti come al solito, ci si rivede venerdì prossimo. Adesso a casa, che mamma avrà fatto “il pranzo della domenica”. Il vento porta un po’ di gas, respiro. È forte, fortissimo, non so immaginare come sarebbe stato se mi avesse presa davvero, non così diluito, disperso, di rimbalzo. Piango, e non è tanto colpa del gas.

 

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