Il teatro di Vanves, dove venerdì 24 gennaio ha debuttato la 16sima edizione del festival Artdanthé, è nascosto dietro il palazzo del municipio. Chiedere indicazioni è inutile. Pochi, tra i residenti, sanno dov’è. Ma ci si arriva facilmente, seguendo la musica e il vociare. Il festival Artdanthé, kermesse di teatro, danza e arte contemporanea, è un appuntamento tra i più attesi della scena culturale parigina, per il numero e la qualità di artisti indipendenti che si avvicendano in scena, sino a fine marzo. Per la serata di debutto, à l’affiche, c’è Grimmless, spettacolo di Stefano Ricci e Gianni Forte, autori ormai noti anche al pubblico d’Oltralpe, di ritorno a Parigi, dopo il trionfo di “Imitation of Death” in autunno, per la prima francese della loro performance, creata nel 2011. Giunti alle soglie del teatro, l’atmosfera è delle più amichevoli. Bicchieri affollati al bancone, cicchetti di Blue Lagoon distribuiti ai presenti, performance collettive di danza prima del sipario e tanta attesa. 

© Daniele e Virginia Antonelli

Sin dal titolo, Grimmless, a quel che accade in scena pare non ci sia nulla da aggiungere, solo da togliere. Un espianto di fiabe dal costato. Ricci e Forte citano i celebri fratelli, autori di fiabe, illustri filologi, studiosi della fiaba come strumento per esorcizzare il reale, incompresi, sin dagli esordi, e scambiati per meri affabulatori per bambini. Sabotano le fiabe più famose, ammaccandone il finale, svuotandole di ogni luccichio, escogitando un tentativo di fuga dagli ingannevoli incanti moderni. “Vomito nel pomeriggio il mio sovraccarico di amicizie”. “Ti ho taggato in una foto all’inizio del sentiero”. Un bombardamento di frasi comuni e luoghi quotidiani della vita connessa arriva dritto nello stomaco. “Ci sei?”. “Apri questa cazzo di chat”. “Ti mando un poke”.

Brividi. Classici fiabeschi e topoi del contemporaneo si mescolano in una scenografia minimale, esaltata da una colonna sonora esplosiva. In scena, mitologie del mondo contemporaneo: i sacchetti del supermercato, valigie, e il plastico di una casa di Barbie che, come in un talk show serale, diventa luogo del delitto. E poi, un letto di mele, dove giace una sfortunata Biancaneve moderna, che si confessa: “C’è una cosa che non ho mai detto a nessuno. Sono morta un sacco di volte”.

© Angelo Maggio

La morte resta a guardare, si nasconde nelle incrinature, dietro le attese disilluse, gli obiettivi mancati, sonnecchia latente in un angolo, prima di entrare in scena da protagonista, nelle fiabe individuali di ciascuno di noi. Ma non c’è tempo per empatia alcuna. Grimmless rimane sulla soglia, scappa dall’euforia alla decadenza, dal riso amaro alla disperazione, in uno zapping rapido di suoni e parole, senza lasciare il tempo all’io di diventare personaggio, all’universale di diventare privato. La storia si spegne e si volta la pagina, per un’altra, ennesima, triste fiaba. A mille ce n’è, si direbbe in un vecchio andante, e qui, uno dopo l’altro, i cinque (meravigliosi) attori vomitano al pubblico la loro fiaba senza lieto fine. Non ci sono i buoni, non ci sono i cattivi, ma solo una rassegnata, e fin troppo umana, serie di esistenze. Confessioni personali, sì, ma, come ogni fiaba che si rispetti, zeppe di quegli archetipi che aiutano il lettore, e in questo caso gli spettatori, a riconoscersi: il principe azzurro dalle turbe infantili irrisolte, Biancaneve delusa dal padre che non ha appeso il suo disegno in ufficio, un gigante buono che si sente come “un condominio di carne in cui abito da solo”.

Sognare è la corsia preferenziale per sputtanarti la vita”. Nonostante questo, o forse proprio per questo, il sogno è preferibile alla vita stessa, alle sue epifanie così prevedibili, alle fini non liete già messe in cantiere. Come hanno dichiarato in un’intervista, Ricci/Forte scelgono la fiaba per avvicinarsi al sogno, per “ripudiare il naturalismo”, sfuggire all’essenzialità della cronaca e del commento e rifugiarsi in un mondo altro di possibilità. Da questo impulso, nasce tale capolavoro di ferocia, nei gesti, nei giochi infantili che si mutano in rissa, nella musica, nei colori stessi, come le felpe e le valigie sgargianti in scena fino alla colata d’oro finale che riveste i cinque attori in scena.

© Angelo Maggio

C’era una volta un paese a forma di scarpa”, si ripete come una tragica anafora, un rassegnato ritornello, che si conclude inevitabilmente in un “e adesso non c’è più”. Sfilano i personaggi delle favole nostrane, “apparitori di professione”, Barbara d’Urso invitata d’onore al matrimonio, la proprietaria del salone di bellezza che ha arrostito la sposa, padre Terlizzi, “il tipo occhiali e fibbia cafona”, tutti presenti al funerale di stato del Paese, con una bandiera italiana che sembra ricoprire una bara e un ultimo incanto, quello della pelle che diventa d’oro e della nevicata finale, per dimenticarsi, chissà, di essere incapaci di vivere per sempre felici e contenti, che ogni sogno, quando si realizza, riserva una traccia di delusione. “Lascio l’anima fuori dal corpo, il mio incantesimo numero 1″.

Buio.

di Valeria Nicoletti

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