“Il più grande male del mondo è il male commesso da nessuno, da esseri umani che rifiutano di essere qualcuno”. Hannah Arendt.

Chi si aspettava, per celebrare la “giornata della memoria”, l’ennesimo film sull’olocausto è rimasto certamente deluso. La tragedia compiuta da Hitler e dai suoi alleati è stata solo lo sfondo, lo strumento utilizzato per esporre un concetto poco discusso e, sicuramente, poco popolare: la genesi e il significato del male.

Un male visto non come l’azione diabolica di un singolo ma come il crollo della morale, non solo tra i persecutori (i nazisti) ma anche tra le vittime (i capi ebraici che collaborarono con i gerarchi nazisti); un concetto che, secoli fa, riassunse in modo perfetto Edmund Burke con la frase “perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione” e rivisitata in questo secolo da Martin Luther King che affermò, “non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti.”

Raramente capita di imbattersi in argomentazioni che provano ad andare oltre la superficialità della classica dicotomia tra “bene e male”, della semplice narrazione degli eventi giudicati solo per le azioni commesse, avulsa da una qualsivoglia analisi di cosa, invece, ha contribuito a crearli quegli eventi.

In questo caso il grande crimine che riuscirono a compiere Hitler e il pensiero nazista non furono le centinaia di migliaia di uccisioni ordinate ma fu quello di rendere l’uomo “superfluo”, un uomo che, per compiere il proprio dovere, deve resistere alla tentazione di essere buono, un uomo che ubbidisce semplicemente ad un ordine, senza porsi dubbi sulla moralità di questo. Il rifiuto di essere una persona pensante, con delle idee e una capacità critica proprie – che è cosa ben diversa, come dice la protagonista, dall’essere stupido – porta alla terribile e inquietante conclusione per cui chiunque, potenzialmente, è in grado di diventare un “mostro”.

La storia di Hannah Arendt ha provato a spiegare i pericoli insiti in una lettura superficiale degli eventi storici e, più in particolare, delle tragedie, ed ha provato ad evidenziare l’isolamento di chi, tra due schieramenti, sceglie di stare dalla parte della verità.

Accettare la validità delle posizioni prese dalla protagonista del film, come si può ben capire, non è stato particolarmente difficile; il timore che sorge, invero, riguarda l’effettiva capacità degli spettatori di riuscire ad estendere queste posizioni e riflessioni non solo ad altri avvenimenti storici ma soprattutto alla vita di tutti i giorni, quando tutto diventa più complicato perché, come gli ebrei del film che condannano aspramente Hannah per non essersi limitata a raccontare gli orrori dei campi di concentramento, si è toccati in prima persona e il senso del giusto e dello sbagliato può offuscarsi.

In tutto questo caos, l’unica stella polare per evitare di cadere nella scioccante mediocrità che spesso si manifesta negli esseri umani, non è soltanto la conoscenza delle situazioni ma soprattutto la capacità di distinguere il bene dal male.

Da quello che vedo attorno a me il più delle volte, dall’isolamento che subiscono certe persone e dalla difficoltà che incontra chi espone un pensiero terzo, diverso da entrambe le fazioni in contrapposizione, ho il timore che questo messaggio, per quanto compreso nel film grazie anche alla narrazione dal solo punto di vista della protagonista, non sarà di facile acquisizione. Ma il silenzio prolungato della sala che, seppur finito il film, non ha accennato ad alzarsi, non so perché, mi lascia ben sperare.

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