Sono una quarantina gli stranieri impiegati alla Electrolux di Porcìa (Pn), il più grande dei quattro stabilimenti interessati dai tagli salariali annunciati dalla multinazionale svedese, che per restare in Italia intende avvicinare gli stipendi a quelli che paga in Polinia. Lavorano nella famosa fabbrica da dodici, anche quindici anni, e il rischio di chiusura li terrorizza. “Perché non avremmo dove andare, qui a Pordenone non c’è più lavoro per nessuno”, raccontano fuori dai cancelli durante il primo giorno di sciopero, tra i colleghi veneti e friulani. Hanno famiglia, molti figli e spesso un mutuo da pagare. Alcuni, grazie alla stabilità occupazionale, hanno ottenuto la cittadinanza italiana. Quelli che ancora attendono, invece, temono che con il lavoro scompaia anche la speranza di vedere accolta la propria domanda. Addai Richie Akoto, ghanese come la maggior parte degli stranieri Electrolux, lo avevamo incontrato l’estate scorsa, alle prese con le storture e le lungaggini della burocrazia che decide sulle domande di naturalizzazione. A dicembre la sua richiesta di cittadinanza è stata finalmente accolta. Ma se la fabbrica chiude, spiega, “saremo nelle mani di Dio”. E ancora: “E dire che qui pensavo di arrivare alla pensione. So già che non troverò un altro lavoro. Se mi danno ottocento euro, beh, è quello che pago di affitto, e ho quattro figli”. “E’ una zona che deve molto al lavoro degli stranieri”, spiega il sindacalista Filcams Beppino Nosella, che avverte: “La chiusura della Electrolux innescherebbe una reazione a catena in tutto il territorio. I primi a doversene andare saranno proprio gli stranieri, che non hanno una famiglia alla quale appoggiarsi”. E a Porcìa c’è già chi riflette su una nuova meta, Polonia esclusa  di Franz Baraggino

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