Illuminare quell’angolo di memoria non è facile. Sembra quasi di riportarlo in vita: “Dentro di me è come se avessi attraversato un sogno, come se non fosse successo davvero: è stata una cosa troppo squallida e spaventosa”. Per questo Lucy, transessuale nata nel 1924 e vittima della persecuzione nazifascista, pesa le parole una a una. “Avevo 19 anni, quando fui arrestata a Bologna e portata a Dachau”. Lì, in Germania, rimase per sette mesi, fino alla liberazione.

Il suo racconto apre uno squarcio su uno dei periodi più oscuri ma anche meno rievocati della nostra storia: lo sterminio degli omosessuali da parte dei nazifascisti. “Del campo non voglio ricordare niente, perché dentro ho vissuto l’orrore, la fame e la disperazione. In quel momento desideravo solo la morte, non mi importava di nulla. Non c’era una via d’uscita e bisognava solo soccombere”. Costretti a indossare un triangolo rosa cucito sulla divisa a righe, durante il regime gli omosessuali furono vittime di torture, umiliazioni e sperimentazioni, insieme a ebrei, rom e disabili. I numeri dell’omocausto parlano da soli: i morti furono almeno settemila, mentre decine di migliaia furono le persone deportate. Anche se stime esatte sono difficili da fare, dal momento che molti preferivano nascondere il proprio orientamento sessuale, anche per timore di essere discriminati all’interno del campo.

Il 27 gennaio, nel giorno della memoria, Lucy ha partecipato all’inaugurazione della mostra “Rosa cenere”, organizzata dall’Arcigay di Bologna, per non dimenticare la persecuzione di gay e lesbiche. “È un progetto nato dai volontari del Cassero, che hanno sfruttato le risorse del centro di documentazione” spiega Vincenzo Branà, presidente dell’Arcigay Il Cassero di Bologna. “mDa lì sono state selezionate 11 storie, raccontate poi da 19 giovani artisti attivi nell’illustrazione e nel fumetto. È un pezzo della memoria poco condivisa, che ha ancora tanti armadi della vergogna da aprire”.

Nei lavori sono rappresentate vite già conosciute, come quelle dell’austriaco Heinz Heger e del francese Pierre Seel, che con le loro pubblicazioni hanno aperto la strada alle prime ricerche sugli omosessuali deportati. Ma anche testimonianze poco note, recuperate negli archivi online, come quella di Henny Schermann, una delle poche donne deportate anche perché lesbica. “Oggi non abbiamo ancora gli anticorpi, e anche una Giornata della memoria non è sufficiente. Basta ricordare l’Uganda, la Nigeria, e anche la Russia delle Olimpiadi di Sochi. All’interno delle discriminazioni portate avanti in questi paesi c’è lo stesso pensiero che animò il nazifascismo” L’esposizione, composta da 17 tavole d’autore, sarà aperta al pubblico nella sede del Cassero di via Don Minzoni fino al 31 gennaio, dalle 10 alle 19 (l’ingresso è gratuito).

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