Non ho mai seguito i Grammy Awards se non per lavoro e devo dire che quanto andato in scena l’altroieri sera non fa che confermare la scarsa attendibilità degli stessi rispetto a quello che è il “sentire reale” delle persone, specie dei consumatori di musica. Che a farla da padroni, in soldoni, fossero i Daft Punk credo ci fossero pochi dubbi ma che dal novero degli artisti non solo premiati ma anche “nominati” venissero escluse band o solisti del calibro di Pearl Jam, Queens Of The Stone Age, Alter Bridge, Alice In Chains, James Blake, Savages, Nick Cave e Nine Inch Nails è piuttosto frustrante. Ma il rock, quando non si tratta di Muse e poco altro, non vende: e questo forse basta per pilotare qualsivoglia giudizio.

Al di là dell’esibizione pacchiana dei Metallica con il pianista Lang Lang (il cui nome a me continua a suonare come una supercazzola) credo che la parentesi più bella sia stata senz’altro quella che ha raccolto sullo stesso palco Josh Homme, Dave Grohl, Trent Reznor e Lindsey Buckingham: in mezzo a tanti ologrammi, ecco almeno una bella lezione da parte di un gruppo di musicisti improvvisati ma veri come un calcio sui denti. Magra consolazione, tanto per rimanere nel seminato, la vittoria nella categoria “best visual soundtrack” per il progetto Sound City: Reel To Reel (riferito all’omonimo documentario) mentre sono ben felice di veder tagliato fuori l’ultimo Loud Like Love dei Placebo così come anche i ritorni ingombranti sia di David Bowie (The Next Day) che dei Depeche Mode (Delta Machine): non basta avere un gran nome per essere presi in considerazione alla pari degli altri ed è questo, temo, l’errore principale che si commette in occasioni come questa. La vittoria dei Led Zeppelin nella categoria “best rock album” con Celebration Day veicola invece un messaggio a dir poco ambiguo: come a dire che si fa sempre in tempo ad essere irrimediabilmente nostalgici, specie se il disco in questione rappresenta un tentativo, mal riuscito, di far finta che John Bonham non sia mai morto. E a riascoltarlo sembra non siano neppure mai esistiti i Led Zeppelin: nonostante l’impegno, evidente, di tutti i diretti interessanti.

Gli Arctic Monkeys, tra le band più vendute dello scorso anno con AM, non sono qui riusciti a racimolare neppure una citazione: fatto, questo, che costituisce forse un primo involontario slancio di sincerità. I ragazzi suonano, sono ancora molto giovani ma danno l’idea di non voler proprio stupire: come si suol dire a scuola “è che non si applicano”. Stessa sorte è toccata agli Arcade Fire: la gioiosa macchina da guerra (cit.) messa in moto con Reflektor gli è tornata indietro come un boomerang nell’anno che avrebbe potuto sancire l’ingresso, definitivo, nel mondo dei grandi che contano. Rimane a bocca asciutta, nel rap, anche Eminem: qui la scelta è forse generazionale in favore di Macklemore & Ryan Lewis che però, a sentirli, non sembrano avere un quinto della stoffa dell’attempato Marshall Mathers. Il trionfo dei Vampire Weekend per quanto concerne la categoria “alternative” è in parte comprensibile se guardiamo ai numeri e alle numerose sveltine offerte dalla stampa di settore ma un po’ meno se invece confrontiamo il prodotto in questione con la mole spaventosa di progetti validissimi usciti in questo ambito: Washed Out, Haim, Local Natives, Palms, Pixies e chissà quanti altri ne vado dimenticando.

La giovanissima Lorde, onnipresente col singolo Royals nelle case e nei supermercati di mezzo mondo, ha la meglio su molte colleghe e colleghi (“best pop solo performance”) e rimane, almeno per me, un fenomeno abbastanza inspiegabile: un disco rarefatto (Pure Heroin), una voce nasale nel senso veramente fastidioso del termine, un brano (quello citato) geniale ma consistente quanto un budino. Se è questo il futuro della musica, così come affermato dal già citato David Bowie, allora le cose sono due: o è diventato troppo vecchio lui o siamo troppo giovani noi per poter seguire le sue visioni.

Curiosa poi la proliferazione di categorie quantomeno folkloristiche, che annoverano artisti e interpreti evidentemente esperti del settore: Best Urban Contemporary, Gospel Christian Music, Regional, Spoken Word, Best Album Notes. La prima di queste è servita, se non altro, ad aggiungere un altro gallone alla carriera di Rihanna: che aveva la funzone (vera) di salire sul palco e catalizzare l’attenzione magari evitando che, nel frattempo, il pubblico uscisse attentando al colpo d’occhio offerto dalle tv di tutto il mondo. Poco male comunque, specie se pensiamo a tutti quegli artisti che un Grammy non lo hanno mai vinto a discapito di tutte le volte che l’hanno sfiorato, perchè la lista qui è quantomai succosa: Velevet Underground, Bjork, Talking Heads, Strokes, Morrissey, Kinks, Kiss, Patti Smith, Journey, Guns N’ Roses, Oasis, Public Enemy, Tupac e i già citati Depeche Mode e Queens Of The Stone Age.

La vicenda ricorda, per certi aspetti, lo scempio perpetrato con la “Rock N’ Roll Hall Of Fame” dalla sua istituzione ad oggi, in quanto da essa rimangono tuttora fuori pezzi grossi come Deep Purple, Kraftwerk, Smiths, Jethro Tull, New Order, Cure, Judas Priest, Peter Gabriel, Iron Maiden, Yes, Joy Division, King Crimson e chissà quanti altri. Chi se ne frega, direte voi: fatto sta che due indizi, anche in musica, fanno una prova. E la sensazione, neanche troppo latente, è che a non esser rappresentato sia chi, in realtà, la musica non la compra ed è , da almeno 15 anni, in buona compagnia!

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