Una bacchettata ad Antonio Ingroia e un plauso a Giorgio Napolitano. Negli stessi giorni in cui vengono diffuse le intercettazioni con le minacce di morte di Totò Riina ai magistrati della procura di Palermo, il presidente della corte d’appello siciliana Vincenzo Oliveri sceglie di lanciare un messaggio d’affetto nei confronti del capo dello Stato, criticando nello stesso tempo l’ex procuratore aggiunto palermitano. “Riferito al potere giudiziario – ha detto Oliveri inaugurando l’anno giudiziario, nell’aula magna del tribunale palermitano­ – il rispetto del proprio ruolo significa che i magistrati non hanno soltanto il dovere di essere imparziali, ma devono anche apparire come tali. Dunque, no all’esposizione mediatica, no a comportamenti impropri, no a carriere politiche inaugurate nel medesimo distretto dove il giorno prima il candidato indossava la toga”.

Una stilettata, neppure troppo velata, contro Ingroia, che da procuratore aggiunto aveva coordinato le indagini sulla Trattativa Stato-mafia, prima di già candidarsi premier con Rivoluzione civile, per poi appendere al chiodo la toga. E se a Ingroia è toccato il bastone, Oliveri ha invece sostenuto che le toghe avrebbero un “un debito di riconoscenza nei confronti del Capo dello Stato, per cui quando si è tentato di offuscare la sua immagine con il sospetto di sue interferenze in un grave procedimento in corso qui a Palermo, sospetti che i nostri giudici hanno dichiarato da subito totalmente infondati, sentiamo di dovergli rinnovare l’impegno, assunto col giuramento all’inizio del nostro lavoro, di fedeltà alla legge e alla Costituzione, di cui egli è supremo garante”.

Il cenno al sospetto di interferenze è un chiaro riferimento alle quattro telefonate intercettate dalla Direzione investigativa antimafia sull’utenza di Nicola Mancino, oggi imputato nel processo sulla Trattativa Stato-mafia per falsa testimonianza, mentre colloquiava col presidente della Repubblica. I colloqui telefonici tra Napolitano e l’ex ministro dell’Interno, poi distrutti dopo la sentenza della Consulta e mai resi pubblici, seguivano le decine di telefonate in cui Mancino confessava a Loris D’Ambrosio, l’ex consulente giuridico del Quirinale, il suo timore per la possibilità di finire coinvolto nell’inchiesta, auspicando un intervento del Colle.

E dato che dopo il messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, qualcuno aveva criticato l’assoluto silenzio del Quirinale sulla vicenda delle minacce di morte contro Di Matteo e i pm che indagano sulla Trattativa, Oliveri ha voluto ricordare nel suo discorso “il sostegno morale che il Presidente ha sempre dato alla magistratura quando, in tempi che purtroppo non sembrano ancora finiti, siamo stati destinatari di gravi quanto risibili accuse, ma anche per la fermezza con cui altrettanto spesso ci ha richiamati a un costume ispirato a sobrietà e riservatezza, invitandoci ad astenerci da condotte che possono incidere sull’immagine di terzietà che deve assistere ciascun magistrato”.

Nessun cenno da parte del presidente della corte d’appello ai pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene, presenti in platea durante l’inaugurazione, destinatari degli annunci di attentato lanciati dal carcere da parte di Riina. Non certo un buon segnale, dato che il ristretto gruppo di pm che indaga sulla Trattativa Stato-mafia rischia da ormai più di un anno di finire isolato dentro lo stesso palazzo di giustizia. “L’anno giudiziario si innesta quest’anno in un particolare clima dovuto alle minacce di Totò Riina e le altre minacce nei confronti di altri magistrati” ha detto il capo dei pm palermitani Francesco Messineo.

In procura invece nessun commento sul discorso di Oliveri che da presidente della corte d’appello dovrà, nelle prossime settimane, assegnare il processo di secondo grado contro Mario Mori e Mauro Obinu, gli ex alti ufficiali del Ros accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra per non aver volontariamente catturato Bernardo Provenzano, assolti nel luglio scorso dalla quarta sezione penale del tribunale. Gli stessi pm che Riina vorrebbe morti, avevano chiesto nell’autunno scorso di ascoltare Napolitano come testimone al processo sulla Trattativa. Un’audizione, quella del capo dello Stato, che non piacerebbe allo stesso Riina, almeno stando a quanto il capo dei capi si è lasciato sfuggire in carcere. “Sono tutti con Napolitano che non ci deve andare” dice Alberto Lorusso, trovando subito d’accordo il boss corleonese: “Fanno bene, fanno bene…ci danno una mazzata…ci vuole una mazzata nelle corna… a questo pubblico ministero di Palermo”.

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